Stamatina fuommu a virri u trenu (25-03-2016)
- 26 Marzo 2016 - 9:46
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“È sempre bello il treno!”
(cit. gli amici del ragazzo di campagna)
Gli impulsi irrefrenabili, istintuali, traduzione dell’unico inconfessabile desiderio di eterno ritorno; magari un ritorno limitato alle minime giovanili passioni (le reali soddisfazioni dell’umano sono raggiungibili solo in queste, e non nei grandi ideali. Ciò è provato storicamente!), come quella improvvisamente manifestata dalla folgorante idea di andare a vedere un treno che giunge alla stazione (e non tacendo di preferire il trenino elettrico alla liberazione dell’anima dalla materia, mi chiedo quanti realmente sarebbero contenti di veder realizzata in toto l’ideologia comunista o quella liberista, a fronte di una serie di più grette e appaganti esperienze personali); l’attesa che si fa irrequietezza per il ritardo, poiché infine, per quanto i rigori, le difficili situazioni economiche, le disavventure sociali, sentite quasi come deja vu, come aspre madeleine che palesano la memoria, è chiaro che non riviviamo precisamente il noto ventennio dei sempre ossequiati ferrei orari ferroviari; la chiacchiera vaga e svaga, lo sguardo si rivolge al cielo dei poeti, si rivela da sé l’estetica rilevanza di qualche tipo di arrugginito macchinario dalla probabile funzione idraulica, ormai dismesso, alla stessa stregua attira l’attenzione l’ingegnosa struttura muraria di supporto alla cisterna; tutte, tali evidenze, residuali elementi di un’epoca bella che si preparava alla tragedia in allegria e spensieratezza, manifestano una mediocre ma accettabile analogia, tra passato e presente; immediatamente a seguire, le constatazioni pratiche, in spirito di contemporaneità, sulla grama rilevanza di un solo binario rimasto attivo, conseguenza delle restrizioni economiche progressive messe in atto negli ultimi ventenni; sono complessive circostanze ideali utili al fine di avviare riflessioni semplici e quasi intimamente rassicuranti, come folate di vento caldo alla fine di Marzo. Pazienza se quel vento sembra il peto di Flaubert, con compiaciuta indecenza annusato sotto le coperte ancora invernali.
Le corrispondenze epocali, ad ogni modo, occorrono solo per la spinta iniziale, poi si procede facilmente d’inerzia in una lunga inestinguibile discussione interiore: l’uomo è un animale che si immedesima, in qualunque cosa, e si rende autonomamente protagonista di qualunque evento gli si pone o esso stesso si propone innanzi, sia esso un film, o la dimensione teogonica che lo riguarda e che egli stesso genera. In alcuni casi, proporzionando razionalmente, cioè nel merito, i riferimenti superni alle analogie terrene, si riesce a costruire un sistema reale di fatti (razionale, per ripetermi) che a tratti assume la vaga artificiosità della piacevolezza. Ad esempio, ricordo gli editorialisti dei quotidiani di qualche anno fa (da Montanelli a Bocca, Furio Colombo e tanti altri) e li ricordo come astri lontanissimi di una scrittura solenne, elegante e densa di contenuti. Non riuscivo certamente a identificarmi con essi, tuttavia sin dalle prime esperienze di scrittura “informativa” (spesso per questo stesso Direttore, anche in forma cartacea), ho tentato mio malgrado e con sommo insuccesso (fino al ridicolo, mi suggeriscono, e la cosa mi provoca un lubrico piacere) di pormi quella scrittura avita come punto di riferimento. Un po’ come quando scrivo altro, e penso a Omero, o all’Ariosto. Non sarò mai Omero, o Ariosto, è chiaro!. lo avevo intuito sin dall’inizio, però sarebbe da stolti viaggiare in mare senza dar di conto alla stella polare. Credo lo facessero tutti, o perlomeno in tanto, fino a qualche tempo fa, ed è lo stesso meccanismo tramite il quale giù nella via il ragazzino tentava i numeri di Roberto Baggio. Ovvio, ribadisco, che non a tutti era concesso di realizzare le aspettative, ma l’ambizione era legittima e il filtro della qualità consentiva un certo equilibrio finale (ragionevole, ancora!). Ritengo che un simile meccanismo regolasse anche gli avvicendamenti della politica. Guardavo in televisione, ricordo ancora la prima tv (il televisore!) in bianco e nero, e restavo a bocca aperta dinanzi ai protagonisti politici della cosiddetta prima repubblica, così eterei e distanti, divinità ingessate e grigie, austere figure inarrivabili. Anche in tale ambito, il rapporto analogico proporzionale ha retto sino ad un certo periodo, ossia fino a quando ha tenuto botta la razionalità, sia pur quella stramba fondata sulla schizofrenia sistemica (più una forma di “bipolarismo”, probabilmente). Non voglio dilungarmi sul punto, Sciascia è stato luminoso in merito, solamente accenno – a maggior chiarimento della questione -il riferimento alla diatriba ideologica di cui discrimine era il muro famoso e a tutto quello che ciò comportava in una repubblica statalista come la nostra, che per pura finzione si atteggiava a seguire il modello liberale. Era una situazione confusa, ma in qualche modo funzionava. Ciò, comunque accadeva, nel bene e nel male, e ora non accade più, per fortuna o purtroppo. Mi rendo conto che agli occhi di alcuni amici miei anche il rapporto-riflesso analogico tra riferimenti e riferiti è scaduto, ossia, in giro non si vede l’ombra di alcun Furio Colombo, né probabilmente di alcun Roberto Baggio. Ed è così, ad esempio, in un tale evidente stato di passaggio dalla parodia all’apostasia, che cresce la tendenza al disinteresse per le prossime amministrative cittadine (le quali, a questo punto, e date le premesse, potrebbero anche celebrarsi tra un ventennio, per quel che riguarda strettamente me. Si procede per ventenni, in questo Paese). Si presta, questo ultimo disfattista atteggiamento delineato, a rappresentare un problema epocale? Può darsi!, ne convengo, ciò è possibile.
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Ma non sarà che siamo troppo concentrati su noi stessi, nel nostro ruolo di protagonisti assoluti? Non sarà anche una buona dose di conservatorismo, magari anche solo subconscia, e magari anche un po’ di insano egoismo a farci sobbalzare sulla sedia dinanzi alle mediocrità del presente? Ovvio non tutti si indignano, e non tutti lo fanno con minima consapevolezza, ma solo gli eruditi, quelli che hanno una qualche cognizione di quel che sta succedendo nel mondo, di come tutto sia un ribollire continuo di cause possibili e funzionali a imminenti disastri. Il disastro in realtà, se mai avverrà, mi convinco a credere che non sarà causato dallo scadimento qualitativo (che c’è senz’altro, ma di cui importa veramente poco alla massa democratica, silenziosa o chiacchierona, che forse si indigna a sproposito e con argomenti sempliciotti, se non di mero gretto interesse materiale), esso invece sarà scatenato con ogni probabilità dalla reazione conservativa della oligarchia pensante, gli eruditi, i professori. Un’oligarchia che pensa male, in tal caso. Parafraso in termini più diretti: non potrebbe essere che per il fatto di non saper utilizzare la tecnologia, ci sentiremo in dovere di azzerarla? Mi spiego ancora meglio: è logico credere che il “lavoro” così come lo abbiamo pensato e metabolizzato per una manciata di secoli, tenderà sempre più a sparire, o a sopravvivere nella mera forma della manovalanza paraschiavista. Le macchine fanno tutto, come aveva previsto il buon vecchio di Treviri. Solo che quest’ultimo aveva anche pensato la cosa foriera di tempo liberato in funzione della crescita culturale e sociale della comunità umana. Non sta probabilmente andando nel modo presagito, anzi la faccenda non ha mai preso quella benevola piega, e forse proprio a causa della nostra volontà di non percorrere quel tracciato idealmente segnato. Ha i tratti dell’inevitabilità tutto ciò, l’uomo non segue binari imposti o anche solo suggeriti da un suo simile, quando lo fa ciò avviene per brevi periodi, e pericolosamente. Quindi che faremo per evitare il tempo libero, il dubbio di esistere senza aver nulla da fare e senza il probabile ricavo economico connesso? Torneremo alla clava, con ogni buona/pessima probabilità. D’altro canto il sistema sindacale, quello politico e chissà che altro di tutto il peggio novecentesco si fonda su queste amene interdipendenze: lavoro-salario-tutela-favore-politica. Gli eruditi, in fondo, sono i numi tutelari di quel sistema che fu e va in frantumi perché ormai irrazionale. Sento di nuovo le arie di Flaubert, ahimè, e temo di potermi o dovermi riabituare all’aroma di quei sacri umori intestinali di cui ancora evidentemente conservo memoria olfattiva.
E se non fossimo noi i protagonisti del nostro stesso esistere? Mi sto convincendo, e spero tutto sommato di sbagliarmi, di non aver più alcuna voglia di vivere il mondo del reale, sin troppo brutto e minimo nelle soddisfazioni, bensì di aspirare a vivere quello delle idee. Voglio dire, il protagonismo dell’individuo nel quotidiano ha riflessi sul prossimo, sulla vita reale del prossimo. Personalmente non voglio neanche minimamente assumermene la responsabilità. Ed è proprio in tal senso che stamane aspettavo il treno, guardando alle attrezzature e alle strutture dismesse. Non conoscendone la funzione primitiva, le immettevo nel mondo ideale personale (di cui effettivamente sono più o meno sicuro di essere parzialmente protagonista), in qualità di oggetti gradevoli, cioè staccandoli da una concreta utilizzabilità comunitaria. Si analizza e riconduce tutto il circostante in funzione del sé, così che il leone finisce per esistere solo in gabbia, al fine sollazzare lo spettatore. I diritti, tuttavia, nel mondo reale, esistono solo se vengono riconosciuti dall’Ordinamento. Mi chiedevo ad esempio, qualche giorno fa, quanti cittadini di Scicli, quello reale (un paese molto più brutto di quello ideale che mi ero costruito durante l’infanzia), si sono accorti che alcune panchine sono sparite da Largo Gramsci (nomen omen nella toponomastica, dacché a quanto pare sembra di volerlo scacciar via in fretta il ricordo di questo Gramsci. Dunque, largo, sciò, pussa via … ). Non ho capito quale differenza ci sia tra la concessione di porzioni di territorio per il sondaggio e l’estrazione di idrocarburi (preciso a scanso di equivoci che non ossequierò il Referendum) e l’applicazione di strutture luminarie e sedili in piazza. Penso ci siano molte più affinità di quanto si creda, se si sussume il tutto sotto la dicitura (come categoria): Funzione Pubblica. Ecco, è probabile che la funzione pubblica oggi soffra una compressione maggiore del consentibile. Limitatamente alla mie aspettative nel mondo reale, chiaramente! Per cui non mi resta altro che pacificamente assecondare le dinamiche non gradite (in una attesa passiva, o meglio, la preferisco, passività attiva da uomo senza qualità, predisponendomi alla fuga nel miglior momento, in caso di intervenuta degenerazione generale, e qualora questa sarà ancora possibile), ciò come prospettiva di rispetto delle differenti scelte del prossimo, di colui che vive nel mondo reale della pratica quotidiana di sopravvivenza, colto e sapiente o meno che sia. E nel frattempo attenderò l’estate vivendo beatamente il mondo delle idee. Scicli, lì, è ancora bellissima, i treni arrivano senza alcuna necessità di servire alcun pendolare, per cui possono consentirsi di restare pressoché vuoti, e le cose esistono da sé, senza alcuna funzionalizzazione meccanicista. Ecco, stamattina sono andato a vedere il treno che arrivava, e in conseguenza di ciò devo confidare a me stesso di sentirmi parecchio felice. Perché il treno è sempre bello!
Gaetano Celestre
Cinà
“Scicli, lì, è ancora bellissima, i treni arrivano senza alcuna necessità di servire alcun pendolare, per cui possono consentirsi di restare pressoché vuoti, e le cose esistono da sé, senza alcuna funzionalizzazione meccanicista. Ecco, stamattina sono andato a vedere il treno che arrivava, e in conseguenza di ciò devo confidare a me stesso di sentirmi parecchio felice. Perché il treno è sempre bello”!
Ryokan, un maestro di Zen, viveva nella più assoluta semplicità in una piccola capanna ai piedi di una montagna. Una sera un ladro entrò nella capanna e fece la scoperta che non c’era proprio niente da rubare. Ryokan tornò e lo sorprese. “Forse hai fatto un bel pezzo di strada per venirmi a trovare” disse al ladro, “e non devi andartene a mani vuote. Fammi la cortesia, accetta i miei vestiti in regalo”. Il ladro rimase sbalordito. Prese i vestiti e se la svignò. Ryokan si sedette, nudo, a contemplare la luna. “Pover’uomo” pensò, “avrei voluto potergli dare questa bella luna”.
Gaetano Celestre
La ringrazio, i suoi commenti sono sempre preziosi. Da sottoporre a lettura attenta e interpretazione meditata.
Cinà
Tanti anni fa, Gaetano, c’erano due amici che, di tanto in tanto, amavano trascorrere le placide serate primaverili seduti in un vecchio sedile alla stazione fs di Scicli immersi in un alternarsi di discussioni e pause. Noi, ancora ragazzetti ci chiedevamo come mai quei due, che così poco avevano in comune, avessero scelto proprio quel posto per le loro conversazioni. L’uno con un lavoro di grande successo, secondo i consueti rigidi schemi gerarchici sociali, l’altro con difficoltà ad arrangiare il pranzo e la cena. Più tardi scoprimmo che, in realtà, si trattava di un’amicizia sincera che si protraeva dall’infanzia con in comune una grande passione per l’arte, nelle sue diverse espressioni.
Fu così che una sera, credo fosse maggio, con la curiosità tipica degli esploratori adolescenti ci sedemmo su quel sedile annusando l’aria in cerca di qualche pensiero da viaggio.. La brezza aromatica fluiva dalla valle accarezzando i neri binari, le parole tacquero, si animarono gli antichi viaggiatori con i visi sorridenti e rigati di lagrime, chi partiva chi arrivava, tutti trafelati e con il petto palpitante per quel viaggio che tante novità ci porterà. Che gioia, che dolore, che speranza, tutto racchiuso, magicamente, in quello scampanellìo che annuncia il treno.
Quella sera fuommu a virri u trenu…
Gaetano Celestre
Poesia, non di altri tempi, ma di un momento che perdura in forma di eternità. Siamo noi, forse, frequentatori occasionali dello spazio-tempo, a cambiare, a dimenticare, e a restringerci troppo, o a dilatarci senza misura.
Cinà
[…]
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
[…]