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Per strada, vagolando nella serena ordinarietà, capita talvolta che con la coda dell’occhio si scorgano inaspettatamente cose portentose, cose che per quanto sorprendenti sono molto spesso da intendersi altrettanto impossibili. Non è l’occhio attento, inquisitore, ma quello della distrazione ad esserne l’interprete, l’ermetico occhio che dal fugace conduce al sogno. E tale conseguenza, ossia il postumo riflesso che produce il grande architetto di idee, sovente non è da attribuire all’eventuale grandiosa emozione sensitiva causata dall’absurdum che si imprime in memoria (come impronta su un epopto), piuttosto semplicemente sono tentato di imputare responsabilità in capo alle ragioni dell’inopinato evento accidentale, cioè della mera sorpresa ricevuta dai sensi (e in seguito, all’ignoto panico spaurimento ad opera dell’intelletto). Voglio dire, la sorpresa, indipendente dal merito, ma per il solo fatto che accade. D’altro canto è noto come la semplicità sia foriera di grandi imprese mentali. La mancata emozione, nell’immediato istante, è da attribuire alla eventuale scarsa dimestichezza dei sensi con l’immagine avvertita, pur semplice che essa sia; ed è quindi per il solo fatto accadente che in un primo moto (dai sensi all’intelletto, per processo biologico) ci si sorprende senza piena coscienza (probabilmente non è ancora una completa emozione). È chiaro che incontrare uno yeti sarebbe accidente così straordinario da scatenare forti reazioni emotive sin da subito intellettuali, cioè avvierebbe una reazione di sorpresa – sia per i sensi che per l’intelletto, e quindi a breve seguirebbe la ragione – ma bisogna ammettere che ciò risulterebbe alquanto banale ad attendersi (poiché il caso sarebbe mostruoso). In questa eventualità, è fuor di dubbio che istante ed emozione personale sarebbero in continuità spazio-temporale (sequenza: evento-reazione dei sensi-intelletto-ragione-comprensione-emozione).

Ciò che invece qui si vuol porre in rilievo – come premessa per intendere il seguito – è la sorpresa per il minimale (dove intercorre un interludio spazio-temporale più o meno ampio nel passaggio dall’intellegere al ragionare). Esempio: l’incontro fortuito con normali entità che hanno in sé recondite maggiori mostruosità di ben più caratterizzati esseri mitologici (penso anche a certi figuri della politica, ma non voglio metterla sul ridere, non questa volta. Ci sarà tempo). Chiusa la questione sulle due fattispecie che riguardano la sorpresa percepita separatamente dai sensi ed elaborata successivamente dalla ragione, ne resta almeno un’altra: scrivevo di cose “normali”, o che sembrano tali, eppure contengono in sé l’eccezionale, ebbene ora toccherà constatare che c’è una ulteriore possibilità costituita da quel che porta con sé il sorprendente, non solo nel recondito e intimo, ma anche nel manifestamente estetico (ad esempio, una persona con sei dita alla mano sinistra, potrebbe d’impatto passare inosservata). Tra poco mi procurerò di descrivere una particolare circostanza su cui potrebbe intervenire tale terza possibilità, dove l’intimo e l’estetico sono sì straordinari eppur potrebbero restare privi del giusto rilievo a causa di un contesto abituale (ordinario) presso cui si presentano (avvengono). E però mi premuro di avvertire ancora il lettore di tenere in considerazione quanto detto sino a qui: non è l’evento nel merito, ma l’eventualità stessa che probabilmente – inizialmente – ci sorprenderà, perlomeno limitatamente ai sensi. Si tratta in particolare di considerare questi iniziali presupposti invitando l’interprete a porli in correlazione a quel mentre si è ancora in cammino verso la realtà, ecco che si subisce improvvisamente l’alt della Ragione, la Quale ha finalmente rielaborato – velocemente – le impressioni inconsce ricevute, annuncia l’allarme per anomalia sopravvenuta e fa voltare di scatto (la sensazione percepita, è stata finalmente valutata come esistente).

Così, qualche anno fa, sulla spiaggia, mi venne l’idea per un racconto. Anzi, devo precisare che il ricordo di quell’idea ritorna spesso, ad ogni estate, quando passeggio sulla battigia, magari dopo una tempestosa burrasca, al termine del fatidico vento dei tre giorni (il ponentino di Cavalarica, eterna e abituale circostanza climatica della mia area geografica-ideale di sopravvivenza). Coi piedi a metà tra la spuma e l’umida rena, sul compatto granulare suolo, distrattamente a capo chino osservo sempre con svagata curiosità ciò che porta la marea per il tramite delle zampillanti basse e bianche onde che giungono galoppando sino a riva: alghe, plastica, molta plastica, arbusti da terraferma, oggetti di natura varia, fiori sciupati, o roba per collezionisti, come quei bellissimi vetri smussati dal tempo e dalle correnti marine, incessantemente sbattuti sulla sabbia e sugli scogli, sino a ridurli in forme di piccoli gioielli, di color verde, marrone, beige, ambra, opache varietà del glauco.

L’amenità del momento che si ripete rispetto se stesso, o i vaghi pensieri su chissà che cosa, abituano all’accettazione scontata della normalità naturale. Solo per puro caso può accadere di rinvenirsi interrotti nel diurno sonno, a causa dell’imprevisto ad esempio, emanazione di qualche ambiguo demone meridiano. Ci si sente come quando non si è compreso un determinato passaggio di una qualunque catena causale ormai data per rodata; si prova la sensazione di quell’operaio un po’ retrò – da cinematografo – addetto alle catene di montaggio, con le mani sul rullo per tutto il turno, che vede passarsi davanti agli occhi sempre lo stesso oggetto, una serie infinita di bielle per esempio, e con qualche attimo di ritardo ripensa all’errore sfuggito al controllo, una particella impazzita, una svista costituita dal passaggio veloce di un pistone. Ed è così, d’un tratto, che appare il basilisco.

Che altro c’era tra le alghe? Il sughero di un galleggiante, parte della montatura di un occhiale da sole, un braccialetto spezzato, parti di un tubo d’ombrellone, uno smembrato aquilone, un homunculus come quello che si prepara nell’officina alchemica. Ecco il monstrum! Solo un po’ rinsecchito, aggrinzito, ma ciò è naturale, poiché sarà sicuramente morto – ormai – da qualche ora, così si va ragionando. Però ha le gambe, le braccia, e un corpo tutto nudo, vagamente androgino, per la precisione somiglia a quelle ipotetiche possibili sembianze extraterrestri che l’immaginario comune ha da tempo promosso nelle reti di conoscenza comune. Soltanto è minuscolo, come un’alice. Sono forse fatti così, gli uomini degli abissi. E allora ritorno indietro per verificare, e lo faccio – ogni volta che mi capita tale visione, anno per anno – come se fosse la prima volta, prima di ricordare di averlo già fatto altre volte in precedenza. Ma l’onda è passata nuovamente, e ha raccolto tutto quello che l’uomo non deve vedere né può capire. Mi era stata data l’opportunità, ed è andata perduta. Io non so se tutto questo è partorito solamente dalla mia immaginazione, o se mi è successo in tempi remoti di confondere forme per altre. La spiegazione ragionevole è utile, senza dubbio. L’applicazione della ragione ai casi della vita è auspicabile, come ricerca di un discernimento logico nel materiale sondato dai sensi e dall’intelletto. I rapporti causali sono tutto, o dovrebbero esserlo, per la buona conduzione del destino civico di ogni ente politico (largo senso). Giusto, giustissimo, benché spesso, anche in altre situazioni, permanga il dubbio su ciò che abbiamo visto con la coda dell’occhio. I paesaggi visti per pochi attimi dallo specchietto retrovisore sono molto più sorprendenti e interessanti di quelli sorbiti con calma dalla panchina, come fossero pessimi cocktail. Forse gli accidentali minimi sono preferibili perché vi è, compartecipe alla visione schietta e ingenua, una sorta di successiva rielaborazione ad opera dell’immaginazione (rielaborazione creativa di sensazioni, prima interpretazione intellettuale, seconda interpretazione per ragionamento, comprensione, immagazzinamento). Non è affatto una giustificazione scientifica, che sia chiaro. Tutti i ricordi sono riorganizzati ad opera dell’immaginazione. Nessuno di noi è Facebook, cioè in grado di riproporre esattamente i ricordi di uno, due o tre anni prima. In ragione di questo dubbio su ciò che esiste o meno, infilo la testa sotto le onde del mare, e apro gli occhi per dare uno sguardo a ciò che non usualmente percepisco ogni giorno. Lo faccio senza occhialini, perché altrimenti sarebbe come barare, e cerco sirene, nereidi e tritoni, malinconici enti che vogliono essere riportati in vita al più presto, mi aspetto di veder sorgere dalle ondulate dune sottomarine le propaggini di antichi palazzi abbandonati, lastricate vie, e strade dimenticate, ormai in disuso, un tempo trafficatissime, come oggi la litoranea iblea, le antiche arterie di collegamento tra i territori di Mu e Atlantide, immagino che i mezzi di locomozione di quel passato ancestrale fossero trainati da animali fantastici. Quale genere di bestie? Forse devo applicare maggiore attenzione, e scrutare stringendo gli occhi per risolvere l’ultima questione – sono miope! – per valutare meglio, più attentamente, il minuto, l’infinitesimale, come quell’essere impossibile visto di sfuggita sulla battigia. Solo così i cavallucci marini acquisirebbero un senso.

Gaetano Celestre

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