14151735_10208521201282142_182521328_o

Siamo andati sin là su, alla piazza, per la paura di non riuscire a sentire, da sotto, l’odore della notte che scende. Sulla panchina, sempre guardando alla pizzeria di Gino, da anni ormai chiusa, aspettavamo che cominciasse a circuirci quel tipico profumo di umido che proviene dalle stelle. I bambini, nel frattempo, giravano indisturbati sui tricicli.

La pizzeria di Gino è ricorrente nei ricordi miei, essa come la prima nuvola di settembre si presenta ogni volta sempre uguale e un po’ diversa, col sottofondo delle note di un sax semplice e in fondo felice di esserci. Non avevamo bevuto, ma tutto era ugualmente molto confuso. Il fatto è che i discorsi ormai sono spesse volte vaghi, e ballano allegri e perduti come marinai ubriachi in equilibrio sul ponte, incoscienti sopra le onde. Cogli occhi guardammo alla Dea Bianca aspettando una benedizione, un sorriso, uno sguardo o uno sputo. Si ride, infine, e va molto bene così. C’è uno, ad un tratto, che dice dai, alziamoci da questi indugi molli, conosco un posto dove si leggono ancora le scritte dell’ultima guerra. Una postazione militare, dice, dai andiamoci. Così mi alzo riflettendo silenziosamente sulla guerra, le guerre, quelle vecchie e quelle venture, che poi … beh, sono un po’ come in quella canzone di Lucio Dalla: “nel ‘43 la gente partiva, partiva e moriva e non sapeva perché, ma dopo due anni tutti quanti, perfino i fascisti, aspettavano gli americani, come a Riccione oggi aspettano i turisti” (“…adesso alle facce più vane, si senton barche in gita arrivare, si vedon cravatte e sottane”, scriveva Keats riguardo i turisti). E insomma, la sintesi è sempre la stessa, finiti i bombardamenti tutti si fanno i complimenti, mentre i morti restano tristi, non tanto perché morti, ma perché non possono stare a vedere tutta questa gran festa che è la società occidentale.

Va bene, via le tristezze, che scherzi son questi, caro Puck?! E così, dicevo, uditi i cani latrare lontano, scendiamo nuovamente giù, fino alla spiaggia. Le nebbie dell’ora più sacra tra quelle notturne avvolgono l’antico maniero delle ristorazioni antique. Ora oracolare quella, bisogna stare attenti, molto attenti, a guardare verso l’orizzonte, magari nei pressi delle luci della trivella. Non si sa mai che si possano scorgere le bianche vele dei pirati, o le gondole di Keats (“Sopra i mari siciliani fluttuano chiari inni,/ tra le gondole che lievi schiumano lontano …”). È notte, ma la luna sparge lamine argentate su una larga via acquorea, tutto è possibile. Bisognerebbe percorrerla prima o poi, per vedere dove stanno i due serpenti crestati che assalirono Laoconte, stanarli e convincerli a non ripetere l’insano gesto. Perché, a ben pensarci, se tutte farfanterie eran quelle di Sinone lo spergiuro, inventate solo per convincere gli stolti teucri a far entrare il cavallo dentro le sacre mura di Troia (i cavalli sono pericolosi, ricordiamolo, e sulla spiaggia di Cavalarica ancora ci chiediamo quando una mareggiata spazzerà infine le feci pregne di tetano), e dunque è possibile accertare così l’assoluta estraneità all’inganno da parte della Tritonide dea, quale dovrebbe essere l’assurdo motivo sotteso al dramma familiare di Laoconte? Chi ha mandato quei serpenti, allora? A meno che non si voglia pensare a una simpatia reciproca tra gli dèi e i mentitori. Le cose dovranno stare per forza così, poiché in effetti chi tramanda i miti e le religioni è pur sempre un inventore di racconti. Guardammo dunque verso Tenedo, con i miei amici, pensando nel contempo che Sinone è un probabile avo di Gano, iniziatore della stirpe dei maganzesi. Quanti ce ne sono in giro, che se ne vanno protetti dalle ali di dio. Sono pensieri che si assommano alla decisione di un taglio, sacrificale e anche un po’ minchione, della veneranda barba, in occasione della festa di Cavalarica.

Restato solo, mentre tornavo a casa con grandi progetti per la testa, oltre la barba da tagliare e la lettura di libri antichi preoccupanti, pensai anche alla solitudine. Se quando uno è solo non ne approfitta per mettere la brillantina alle idee e farsi bello con se stesso, ammiccare e sedursi con proposte allettanti, allora tanto vale restare nel clamore, adagiarsi alla movida, e festeggiare in lontani luoghi alla moda pur di apparire in qualche foto. Non vedo nulla di male, sia chiaro, nell’essere gratificati dai like su facebook. È solo pubblicarsi e taggare, ed essere contenti. Fa felice anche me, talvolta, come quando mi guardo allo specchio e mi allieto dei pochi peli ancora neri tra la barba. Ma, ripeto, se uno – da solo – ha del tempo da dedicarsi che non sia quello destinato ai social, magari potrebbe elevarsi su quel monticciolo adorno di misteriosi anfratti, e poi discendere seguendo il corso del ruscello che irrora la verzura e i frondosi tigli profumati della personale vallata in sempiterna primavera (Locus amoenus brevemente descritto dall’Ariosto: “Sul lito un bosco era di querce ombrose,/ dove ognor par che Filomena piagna;/ ch’in mezzo avea un pratel con una fonte,/ e quinci e quindi un solitario monte.”.

Si tratta comunque di far cose per sé, su facebook, o nel mondo delle idee (il fine è lo stesso, anche se non ne abbiamo piena consapevolezza; sono i mezzi a cambiare). Tuttavia, personalmente preferisco star lì dove la natura sarà svelata dai fatti concludenti, e facilmente mi stupisco del tutto, delle nuvole che come pecore trascorrono i cieli, degli astri e dei satelliti, dei pianeti, delle canne bagnate di brina e del profumo di terra umida. Arriveremo al secco, in un baleno di poche ore. Mi godo i momenti, mentre liscio la barba, che ancora c’è, e per com’è, pensando che sarebbe bello, anche solo in sogno, trovarsi in una pineta mentre cade leggera la pioggerella tardoagostana. Così tacendo sulle soglie del bosco, ascoltare parole di gocciole e foglie lontane. È pur sempre un tempo di solitudini.

Ferragosto 2016

Gaetano Celestre