Da perfetto soggetto fondamentalmente ozioso, “inoccupato” istituzionalmente parlando, ancora in fase post-adolescenziale per quanto riguarda la maturità di pensiero, in questi giorni mi sto arrovellando sulla correttezza formale e linguistica dell’espressione Il Papa si è dimesso. Dovrei probabilmente, in maniera più conveniente, aggrottare le sopracciglia e – tutto contrito – ragionare su altro, su cose più serie e vantaggiose per il mio avvenire. Ad esempio su quali siano gli eccitanti benefici diretti e ideologici di un bel conto corrente bancario, su quanto sia stupendo e meraviglioso divertirsi a controllare le oscillazioni della Borsa, oppure dovrei occuparmi dei loti fritti e del perché probabilmente non stanno bene in un panino insieme alla nutella, le caramelle gommose e lo sgombro. Queste ultime riflessioni sarebbero richieste per un serio impegno – anche politico – al fine di rendere possibile un domani migliore, ovviamente rientrante nei limiti stabiliti da Strasburgo! Il tutto all’insegna di una maggiore affidabilità (di facciata), coscienziosità (apparente) ed (esilarante) austerità (involontaria) …

Futilità per futilità, ho preferito perder tempo sul dubbio pontificale: può un Papa dimettersi?
Cioè, a scanso di equivoci – intendiamoci – non mi sto chiedendo se sia legittimo che Ratzinger abbia lasciato l’incarico, il mio è proprio un dubbio ascrivibile alle mere questioni di “proprietà di linguaggio”. Faccio un esempio. Secondo voi, cari lettori, suonerebbe bene l’espressione Mi sono scaldato i capelli col fon?  o forse sarebbe meglio preferire  Mi sono asciugato i capelli col fon?

Geoffroi de Vinesauf, nel suo Poetria Nova (sec. XIII), partendo dall’assunto tomista che è bello ciò che è proporzionato, consigliava i poeti sull’utilizzo dello stile più adatto, del termine più adatto all’argomento che si vuole trattare. Una proporzione come convenienza qualitativa, dice Eco.

È stata rispettata una consonanza qualitativa nel nostro caso?

Al termine “dimettere”, come verbo riflessivo, viene assegnato dal vocabolario italiano il significato di “abbandonare volontariamente una carica, un ufficio, un impiego…”. Ora, il Latino, che è molto più preciso, per lo stesso significato preferisce usare deponere e meglio ancora abdicare. Meglio ancora – dico – per il nostro caso, quello del Papa, che essendo da considerare più o meno come un Monarca, tradizionalmente e tendenzialmente – nel caso eventuale che la necessità lo richieda – predilige abdicare.

Tanto più, cari lettori, che a volerla dire tutta, il canone 332 del Codice di Diritto Canonico, così annuncia al comma 2: Nel caso che il Romano Pontefice, rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.

Qui, oltre alla precisione del latinista, il Legislatore Canonico mostra tutta l’abilità nel sofismo e nel bilanciamento degli interessi (ricerca della proporzione), che da sempre caratterizza la Chiesa Universale.

Un impiegato si dimette, un convalescente ormai guarito viene dimesso dall’ospedale, il tono può essere dimesso, persino un Presidente del Consiglio può dimettersi (essendo il suo “ufficio” da correlare idealmente a quella utopia costituzionalista che fonda la nostra Repubblica sul Lavoro), ma un Monarca, amici miei, non rassegna le dimissioni, come detto prima solitamente abdica!

Ovviamente – ed è questa la vera e propria abilità diplomatica del Legislatore Canonico –  non era conveniente associare dichiaratamente e linguisticamente il Pontefice alla figura del Re, non nel 1983 (anno dell’entrata in vigore del Codice). Dunque concludendo, si può avanzare l’ipotesi che sia preferibile dire, democristianamente, il Papa rinuncia…

Siamo d’accordo, la sostanza è sempre quella, l’attuale Papa non sarà più Papa dal 28 Febbraio in poi, e i miei capelli sono tutto sommato asciutti. Ma che ci volete fare, il mio fon non riscalda tanto bene e l’umidità, com’è risaputo, fa male.

Gaetano Celestre