piedi a mollo

Si aspira dunque alla serietà?  Come fine, allora, oppure come mezzo? Dismessa subito l’idea che alla serietà come fine si possa ambire, se non per spirito autodistruttivo, con istinto di conservazione resta da chiarire per cosa Ella possa essere tramite, e in quale misura. Intendo dire, cerchiamo di venire a capo della vicenda: perché si diventa seri? Nella maggior parte dei casi mi si risponderà, perché la vita richiede serietà, per essere condotta a compimento proficuamente e pragmaticamente. In altre parole, dato che occorre procedere negli anni, con istinto di conservazione, magari portandosi appresso la responsabilità di una famiglia, si decide di divenire seri e ad esempio lavorare (come dovere, più che come diritto), aderendo alla laboriosità come campo di esercitazione delle qualità più austere ora acquisite, fingendo sorrisi accondiscendenti rivolti al cliente o al venditore, comunque al nemico, reciprocamente girati tra gli offerenti e i domandanti, spesso agendo a discapito del concorrente più prossimo (ah, lo spirito cristiano!), pur di ottenere quel guadagno – spesso economico – atto a consentire un certo livello di lietezza (o più grettamente “agiatezza”) nella società.

Il discorso non fila per nulla (rendiamo seria la convivialità al fine di soddisfare il nostro bisogno di svago?), e somiglia in tutto a un circolo vizioso. Perlomeno siamo arrivati ad un assunto: necessitiamo di “svago”, alla fine. Tuttavia, date le contingenze della vita – sospirando si sorride, rimandando il pensiero a un periodo di infanzia inteso come artificio dorato, superato, utile solo come riferimento di un eden perduto – si procede in percorso di espiazione. Il mercato globale, in effetti, ha le sembianze del Purgatorio dantesco. E se si deve procedere per analogie allegoriche, ne consegue che il premio dovrebbe essere il paradiso della pensione (cui pare non si giungerà più, in tempi brevi); ritorno a un nuovo artificioso asilo comunitario e giocoso, ma stavolta nelle forme della progressiva demenza accedente. Non viene a nessuno il dubbio che l’espiazione si protragga inutilmente, o quanto meno ben poco mitigata da sonnolenti risvegli di coscienza? E poi qual era il peccato originale, aver forse giocato troppo a lungo negli anni dell’irresponsabilità? Scrivevo su Facebook, qualche giorno fa: “Immaginavo un futuro infantilmente lieto, coi gessetti colorati, e le macchinine, e i truppietti  in copia sproporzionata, immaginavo e mi vedevo da grande ancora a giocare ‘nna vanedda, magari con piglio di serietà maggiore, ma pur sempre a giocare. Immaginavo che crescere significasse giocare con maggiore coscienza, in sostanza. A che altro può aspirare l’uomo se non il gioco, il divertimento conviviale? Accadeva di immaginarmi così, quando ero più piccolo, e invece ho scoperto che il mondo è pieno di pezzi di merda, Sì, è divertente anche così alle volte, vero, ma alla lunga nuoce gravemente alla salute. E a vanedda ristau vacanti!”

Non è che volevo auto-citarmi perché me ne ritenga degno, il fatto è che per giungere al dunque mi è sembrata la via più breve, così ci sbrighiamo e scendiamo in spiaggia a passeggiare. C’è bel tempo, le nuvole sembrano pecore al pascolo, e il ceruleo sfondo rasserena l’animo inducendolo allo scherzo, se non addirittura alla zingarata. A scuola ci hanno insegnato, o imparato (e che cavolo, lo dico come mi piace, anzi, a me mi piace così), che prima o poi avremmo dovuto scegliere un lavoro (gran brutta parola), e sarebbe stato preferibile decidersi per qualcosa che ci piacesse e consentisse di agire nelle relazioni professionali come giocando. Qualcuno ci è riuscito, è vero. Quasi sempre questi “qualcuno” sono professionisti in ambiti artistici, o comunque dove è possibile esprimere la naturale propensione ludica. In effetti, penso che tale aspetto sia presente in tutti i tipi di attività utile, a ben cercare nell’intimo. Il problema reale non è tanto la categorizzazione, evidentemente, quanto invece la capacità di interpretazione della realtà quotidiana. Ho scritto miriadi di banalità, prescrizioni note di una sociologia di massa, moderna e ridondante, mai sentita ma solo ascoltata dalla massa medesima. Perché? Perché malgrado tutto ciò sia ben noto a tutti, o almeno a molti, non faccio che cogliere serietà fuori misura laddove non dovrebbe essercene. Verrebbe da scrivere che invece in altri luoghi sarebbe preferibile un maggior grado di serietà, ad esempio in politica. Invece no, anche loro sono afflitti da serietà, basta guardarli nei volti, tristi e spesso biechi. Il loro problema è che non pensano all’ameno, e l’ameno non può che essere conviviale, comunitario; così prendono decisioni stupide, spesso funzionali ai loro fini individuali, e lo fanno con semplicità barocca, pare che giochino, scherzino. Ma lo fanno male, giocano senza serietà.

Oh, ma quantu parru?, e pensare che volevo scrivere qualcosa di estremamente conciso …

Gaetano Celestre