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Da qualche tempo ho avuto accesso, finalmente, alle stanze dell’ottimismo. Saranno le vicende politiche, sarà la frequentazione di certi salottini perbene dove si discute delle misure da adottare in Scicli per risolverne problemi e criticità (proponendo quasi sempre misure da pamphlet rubricati negli scaffali di modernariato, oppure così sempliciotte da sembrare letterine per babbo natale. …che tenerezza!). Fatto sta che sono diventato ottimista, poiché ho compreso che alla fine tutto si accomoda, da solo. E gli scontenti, che comunque restano (fuori dai salottini e dalle vicende politiche), si accontentano di qualche partita in paytv. Francamente credo che l’unica differenza, tra i nostri tempi e le fasi prerisorgimentali italiche, stia in quel palliativo televisivo calcistico che persiste a ogni crisi (sarei curioso di sapere che sta succedendo in Grecia da quando gli hanno interrotto il campionato di calcio. La gente protesta? Se ne sta fregando? Nel caso indicato dalla seconda ipotesi, ne dedurrei che allora i greci se la stanno passando veramente male. …e se fermassero il campionato di calcio anche in Italia, oggi, che accadrebbe?). Altra digressione, poi giungo al dunque: ieri leggevo sul Sole 24 Ore che un rapporto della Fondazione Hume (l’intitolazione stessa, tuttavia, mi induce a restare scettico su quanto sto pur scrivendo) sconfesserebbe gli allarmi di quanti sostengono che nel mondo stanno aumentando le disuguaglianze (tuttavia, il quotidiano avverte che in Italia, c’è di fatto un aumento delle disuguaglianze tra Nord e Sud). Dunque perché dovrei essere pessimista?

Occorre capire di che disuguaglianze si parla. Si tratta del capitale reddituale e delle condizioni di vita, su statistiche di media, credo. E non fatico a credere a tale rapporto, dal momento che sotto gli occhi di tutti non abitiamo più nelle stamberghe da libro cuore e abbiamo la paytv. Non mi sto contraddicendo, e credo di non voler neanche contraddire il serio Sole, avanzo la banale sovra-interpretazione che mi porta a dire che a questo punto la disuguaglianza è meramente sociale (meglio: nel grado di civiltà acquisita e/o tramandata o dalla quale si è tramandati). Spesso su queste pagine ho parlato di Facebook come l’illusione dell’allargamento massimo del diritto di espressione del pensiero (una grande stanza piena di gente che parla contemporaneamente). Ma non si tratta solo di questo. Ci sono concessi (o ci siamo concessi, come popolo sovrano) molti diritti, è vero, ma possiamo usufruirne realmente? Possiamo usufruirne tutti e tutti allo stesso prezzo? Non parliamo degli obblighi, che sono quanto più spesso elusi. La disuguaglianza è civica, sociale, nella fruizione dei diritti e dell’asservimento dei doveri. La disuguaglianza economica, che pur c’è tra nord e sud, fa da corollario. Mi esprimo in un altro modo, per me abbastanza classico ormai, la tecnica avanza (progredisce!, incessantemente. Per tecnica qui non s’intende quella di produzione – al cui mutare Marx connette i conseguenti cambiamenti sociali – che è rimasta pressoché la medesima da oltre due secoli, da che si produce per un fine capitalistico), ed è costei che ci consente di mantenerci tranquilli, la società invece è rimasta ferma ai ragionamenti dell’Italia ancora da fare.

Per cui un’elite salottiera (di cui, ahimè, in qualche modo sono appendice, sebbene per nulla di matrice neo-aristocratica) discute di bene comune, di soluzioni, di idee (pure di socialismo, ahimè, che è argomento cui sono parecchio affezionato), mentre una copiosa percentuale di disinteressati (per motivi anche di realismo produttivo) se ne sta fuori a barcamenarsi sino a sera e si alluppìa successivamente con il nulla televisivo. La situazione è stagnante. Inserisco in coda a questo articolo gli estratti da un inserto de La Sicilia, risalente al 1999. Le valutazioni le lascio all’eventuale lettore.

Ma torniamo all’ottimismo, per cui credo che alla fine tutto si risolverà nel migliore dei modi (formula dalla tendenza gesuitica, questa): bene, ho la percezione – probabilmente sbagliata e spero di essere corretto – che la mia sia una generazione di gente che non sa tagliare il pane. Ossia, quel tipo di soggetti che apprestandosi ad affettare il pistolo di pane (chiedo scusa per la foto, non avevo quella fattispecie in casa) si vedono interrotti nell’opera dal pronto intervento del premuroso padre: “ci penso io!” (ghe pensi mi…). Dunque non è che voglia dire che la mia generazione sia costituita da incapaci – per quanto sulle mie capacità personali mi mantengo seguace della filosofia ispirata da Hume – piuttosto penso che non ci sia stata mai data occasione di verificarlo sul campo (forse persino per fortuna), né credo ci sarà data in futuro (non so se ancora per fortuna). Chiariamo subito una cosa, i papà ogni tanto affettano bene, ogni tanto male, spesso si tagliano, o comunque le fette non risultano di calibro statisticamente costante. E glielo si fa notare. Come no?!, ci mancherebbe! Talvolta i padri se lo fanno notare tra loro, e qualcuno alza la voce incitando ai “giovani” perché si mettano a tagliare il pane (quante volte avrò sentito la paternale pro-giovani in trentacinque anni?). Ma poi, puntualmente, in panificio ci sono già i “grandi”, stanziali. Al limite, al limite, si trova qualche genitore che si offre da esempio, come docente, invitando a non essere precipitosi e saper attendere il giusto momento. D’altro canto non so se io e la mia gente saremmo veramente in grado.

Staremo imparando bene? Ci faranno mai tagliare? Sarà un bene per l’umanità? E poi non sarà pericoloso questo coltello che ci rivolgono (dall’estremità sbagliata talvolta)?

Mah!?! Nel frattempo restiamo fermi, che tutto si aggiusterà da sé, come sempre. Come insegna don Abbondio. Fin quando c’è pane (e chi lo taglia), c’è speranza.

 

Postilla:

A questo punto della situazione, non ho più interesse a tagliar pane, personalmente. Anzi, mi trovo bene così. Dunque, tagliate, affettate pure. E fuor di metafora: chi ha fatto danni in Italia, in questi ultimi trentacinque anni (coincide la mia età con gli anni della peggiore gestione delle risorse comuni), ora continui e completi l’opera sino alla fine, nel caso giungendo persino alla distruzione totale (dal nulla sarà più semplice ripartire). Non mi riferisco, ovviamente, alla politica, o perlomeno non solo ad essa, ma a ogni ambito che riguarda la vita post-educazionale. Questo è un paese per tagliatori di pane.

 

Gaetano Celestre

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