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Pochi esami e studi sono più noiosi di quelli applicati all’analisi estetica del viso di una anziana signora incautamente sottopostasi a trattamento di lifting. Si potrà più o meno essere d’accordo con questa affermazione di partenza, in senso avverso magari chiamando in soccorso contrarie ragioni psicologiche o quelle che pertengono la libertà di espressione del sé (se non proprio dell’io), ma di sicuro perlomeno i maschietti converranno con me: lifting, plastiche, rifacimenti e affini, risulteranno ai nostri occhi lubrichi come null’altro che iper-trucchi. Sono – neanche sarebbe necessario promuovere la retorica della banalità – i segnali di una vecchiaia inaccettabile. Inaccettabili sono i mutamenti, quelli che causiamo incidentalmente e quelli che subiamo; e sempre rappresentiamo a noi stessi una visione del futuro da realizzare in termini di reazione e conservazione. Quelle poche volte in cui siamo capaci di innovare, si aprono sempre conseguenti discussioni indirizzate al ripristino (vogliamo la Lira, ritorni Berlusconi o persino De Mita, Obama era meglio, e così via, sempre a novità accadute), mai – proprio mai – invece si propone il dialogo per un ulteriore passo avanti. Groenlandia vuol dire “Terra Verde” (Green-land), ciò segnala un mutamento avvenuto (oltre che subìto), e forse un ciclico ritorno cui pare si stia andando incontro. A cosa serve guardarsi attorno, viene da chiedersi, se non per cercare di interpretare i mutamenti al fine di operare aggiustamenti che si improntino alla migliore adattabilità nel presente e nel futuro? Riusciremo a far solidificare nuovamente i ghiacci polari, o possiamo in realtà solo ritardare quel che è processo naturale – magari anche per mezzo di buone pratiche ecologiche, da promuovere a prescindere dalle intenzioni – al fine di trovare nel frattempo soluzioni preferibili e per l’appunto di buon adattamento?

Ho cominciato quasi per scherzo, a dire in giro che la facciata della Scuola Media Lipparini fosse bella. Lo utilizzavo come sberleffo nei confronti dei perbenismi di una classe borghese-aristocratica chiacchierona e poco efficace, prima ancorata allo sfruttamento intensivo del suolo agricolo, ora concentrata sulle aspettative turistiche (spiace dirlo, rimarranno a bocca asciutta questi moderni baronetti feudatari di un terziario di sussistenza; il turismo non produrrà mai tanta ricchezza quanta ne ha potuta generare l’agricoltura. Ciò non potrebbe mai avvenire, per ragioni economiche, se non in un unico caso costituito da circostanze di servaggio coloniale in stile Terzo Mondo. Pensateci: dove – nel pianeta – il turismo è economicamente, primariamente, trainante?). Poi ho piano piano approfondito il contesto storico del progetto di Cilia, ho compreso il riferimento politico brasiliano, ho condiviso le ragioni del socialismo reale che reagisce tramite le mani del popolo abbattendo i simboli del potere di un precedente regime opprimente e liberticida (nel caso specifico l’abbattimento dell’odioso Gesuitismo, tornato di moda solo ora nel forse troppo benevolo volto di Bergoglio). Infine, del fabbricato, ho cominciato ad apprezzarne in concreto le linee semplici delle spade che si slanciano verso l’alto, progresso architettonico qual simbolo dell’auspicato sociale; un grande passo avanti a fronte della anonima facciata del precedente Convento abbattuto (dalla foto, un ennesimo inutile esercizio di barocchismi preteschi, senza alcun apice artistico da tenere in grande rilevanza). Forse, occorre comunque ammetterlo, meglio sarebbe stato conquistare quello spazio religioso (come lo si era fatto a suo tempo con i locali dell’Ex Camera del Lavoro, redimendo lo spazio alla promozione del bene comune; parlo di aree ora nuovamente perdute all’utilizzo comunitario), premendo che la “vittoria” fosse a vantaggio delle laiche prospettive di un riformismo progressista necessario (e ancora oggi tardo a venire, sempre nella speranza che con questa Amministrazione sia la volta buona), e quindi scegliendo di erigere il palazzo in stile Niemeyer dinanzi al laghetto artificiale, abbellimento di un giardino rigoglioso di frondosi alberi, all’interno di una urbanizzazione periferica più illuminata (occasione perduta, quella di una Jungi più gradevole urbanisticamente), si sarebbero evitate tante sterili polemiche, si sarebbe resa più lieta e conviviale la città del popolo (una Scicli 2 mancata, dove prima sorgeva il Villaggio Aldisio).

Ad ogni modo, le cose sono andate come sono andate, eppure – tra i trascurabili dubbi residui – con mio compiacimento non posso negare di comunicarvi l’utilità del porticato nel corso dei mesi invernali. Infine, vi dico senza alcuna intenzione derisoria, che il progetto di Cilia mi piace, andrebbe anzi valorizzato con un restauro di pulitura e restyling degli infissi. Ora, io penso che sia una forzatura inutile quella di rifare la facciata dell’edificio in questione, al di là dei miei desiderata. Prevalga il senso pratico: lo si abbatta nuovamente, magari per posizionarvi un bel giardinetto al suo posto (sarebbe un bel verde segnale, in questo Paese così legato alla tradizione cementizia), oppure lo si lasci così com’è, per la gioia di tanti anziani al naturale e non truccati-disoccupati lietamente deambulanti in piazza.

Perché rifare? Meglio è fare qualcosa di più bello, e più utile, se proprio non si vuole accettare quel che di fatto siamo diventati.
Gaetano Celestre

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