Kavalarikafirmata

“Questo non è un paese per vecchi”. In quale senso debba intendersi, il lirico proclama iniziale di Yeats, è tutto da indagare. Ho la percezione che l’interpretazione migliore, oggi, potrebbe essere quella più vicina alla lettura che suggerì Frazer in merito ai leggendari e sanguinosi avvicendamenti dei “re-custodi” del bosco di Ariccia (l’uomo verde, etc, etc.). I vecchi sono dunque destinati a soccombere violentemente abbattuti dai giovani, aspiranti custodi e sovrani di un bosco chiamato modernità? Può darsi, sennonché la modernità non è sicuramente un locus amoenus. Qualche giorno fa, una lucidissima Franca Valeri, ha detto che l’Italia è “un Paese sgradevole”. Ne condivido i termini e, per quanto la mia visione sia ristretta per motivi anagrafici rispetto la sua, concordo anche quando argomentava riguardo gli anni che stiamo vivendo: “Era un’entità mistica. Un posto mitico, il 2000. Poi è arrivato e disgraziatamente si è presentato nel peggiore dei modi”.

Altro che 2001 Odissea nello Spazio, qui siamo ancora sulla Terra, quella dei Lestrigoni per giunta. La bruttezza e l’abbrutimento è lo standard da sopportare ogni giorno. Ci si abitua, prima o poi!, qualcuno consiglia di placare l’insoddisfazione con una specie di mantra imbecille: non ci sono risorse economiche, accontentiamoci! Ciò che rimane di piacevole sono gli scampoli (ormai pochissimi) di paesaggio naturalistico non ancora toccato dalla furia dei cementificatori (non tutte le mancanze di risorse vengono per nuocere), e – riguardo i centri urbani – i residui di società precedenti (di molto) la nostra. Mai sia che qualcuno possa pensarmi come uno dei tanti della bellezza che salverà il mondo, preciso immediatamente che per me non esiste una possibilità di categorizzazione del bello (ma la sensazione del brutto ce l’ho), né tantomeno – più prosaicamente – credo che si possa salvare alcunché in tal modo. Sapete cosa penso che salvi la piacevolezza dello stare in un luogo? L’essere dimenticati!, più precisamente l’essere dimenticati da chi vuol fare soldi. Ed eccomi giunto al dunque, mi sento vecchio, proprio perché penso qualcosa del genere, in un tempo dove mi pare che tutti siano veloci, smart, alla ricerca di una soluzione ad ogni costo, per ogni cosa, immediatamente, sempre privi di un’idea che li sottenda nell’azione (figuriamoci se si possa pensare a un’ideologia. Assurdità!). La politica del fare! Mah… del fare male, mi sembra. Io neanche mi ci voglio mischiare in questa faccenda della mafia a Scicli e dello scioglimento del Consiglio Comunale, perché ho l’impressione che qualunque cosa si dica (pro o contro) provochi reazioni spropositate da una parte o l’altra. E comunque, di fondo, la faccenda mi conduce veramente – lo dico con grande onestà intellettuale – all’indifferenza più olimpica. Intendiamoci, penso che ancora non ci sia, a Scicli, una mafia simile a quella solitamente delineata nei libri o alla televisione. È probabile, in verità, che il terreno sia propedeuticamente pronto a qualcosa del genere, ma questo dovrebbe essere materiale di indagine e vaticinio di tipo giornalistico, dunque non mi interessa. Penso, tuttavia, che dagli anni 90’ (del novecento) ad oggi, ci sia una gran brutta situazione a Scicli (come già detto terreno fertile a tutto il malaffare che c’è stato, c’è e verrà). Il problema, lo dico banalmente, è sociale/culturale. Gente brutta produce società pessime. Dunque, se proprio devo dire qualcosa, ben vengano i Commissari e lo Scioglimento, purché si faccia chiarezza e pulizia, mafia o non mafia che sia stata. D’altro canto non esistono figure e fattispecie giuridiche che comportino lo scioglimento e l’allontanamento di un popolo da suo luogo natio (la proscrizione di massa non è possibile, purtroppo o per fortuna. Forse sarebbe possibile sotto mentite spoglie, per il tramite dei nuovi cittadini sciclitani, quelli che vengono un mese o due l’anno, se decidessero di sostituirci permanentemente. Oppure se dovessimo venire conquistati dall’ISIS e sostituiti  in seguito a sgozzamento. Non so, in ogni caso, sono scettico in entrambi i casi, riguardo la riuscita finale. Probabilmente perché “il problema” non è solo sciclitano ma si tratta di una pestilenza che ammorba tutta la civiltà globale).

Avrei voglia di tornare a Cava d’Aliga – che bellissima non lo è mai stata da quando si è cominciato a urbanizzarla sino ad ora – ma ai tempi in cui senza consumo di alcool e affini, o senza sentire la necessità di fare chissà che, andare in giro per locali o che altro, ci si divertiva lo stesso con “niente”. Pensate un po’, passavamo nottate intere parlando di amenità varie, ridendo e scherzando, e non avevamo smartphone (neanche il semplice cellulare, a dire il vero). C’era Gino che faceva la pizza col mattarello, i ragusani che ancora colonizzavano la località, la divisione tra Cava d’Aliga Alta, Cava d’Aliga Bassa e Bruca, in una sorta di minicampanilismo che tendeva a far differenze tra strati sociali che poi – in fondo, in fondo – erano tutti comunisticamente borghesi. Si giocava a tamburelli in spiaggia e poi la sera si faceva su e giù per quella magnifica scalinata (c’era ambizione di grandeur nei progetti di chi pensò quella via di transito), dalla piazza al lungomare Frine (le vie di Cava d’Aliga, per come e a chi sono intitolate, meriterebbero senz’altro maggiori attenzioni). L’andamento curvilineo della conca (la “cava”) consentiva di udire da lunghe distanze mormorii e vocii (tale interessante fenomeno acustico, oggi, come residente estivo, mi conduce alla preghiera mattutina con perorazione lagrimevole agli dei superni, perché mai a nessuno venga in mente di farvi in zona un locale notturno). Mica era bellissimo, ma ci si accontentava e in fondo era piacevole starci in mezzo. Si era ancora figli delle stelle (chiaramente ispirati da un’ideologia a metà strada tra Shakespeare e Nietzsche, dunque).

Anche Scicli, che d’estate si svuotava letteralmente (perché qui da noi la villeggiatura era intesa come un reale trasferimento che perdurava per più di tre mesi pieni), emanava un malinconico fascino nelle sporadiche visite di certi fine settimana serali. Non parliamo della Scicli invernale, sempre piacevolmente attiva e laboriosa (veramente laboriosa, non come la si vuol fare credere ora), nelle vanedde dense di attività artigianali e di botteghe di ogni tipo. Invece ora, la malinconia mi è trasmessa dal ricordo dell’incedere lontano del fabbro che batteva sui ferri incandescenti, o il “carrettiere” che discuteva di Pertini col falegname, mentre si metteva a bollire l’impasto per la colla (oggi le autorità competenti e inflessibili, per mezzo di qualche legge europea, farebbero immediatamente chiudere bottega …e magari qualcuno titolerebbe: “Terra dei Fuochi anche a Scicli, forse la Mafia dietro l’attività inquinante di un malvagio artigiano di Scicli.” …e pensare che sui quei fornelli si riscaldavano pure le minestre per improvvisare convivialità. Che gentaglia che operava in questo paese da Sud America, sempre fuori da schemi e regole generali). Non esiste più nulla di tutto questo (quelle regole trasgredite col buonsenso si sono tramutate in irregolarità endemica di quasi ogni attività produttiva). Rimane un paese disperato, anche inconsciamente se vogliamo, che accende ceri a San Montabbano, e attende l’arrivo di orde di turisti (poveracci, me li immagino quasi come barbari, mentre i barbari sono gli sciclitani che pur di compiacerli porterebbero la Chiesa di San Matteo in via Mormino/a Penna), un paese che si vuol dare da fare in renzesca maniera, facendo pur di fare, pur anche se il risultato non è economicamente apprezzabile (e neanche lontanamente lo è sotto il profilo etico ed estetico). I giovani, i giovani, di essi è il paese. Sarebbe anche una cosa buona, dopo tanti anni di vecchiardi arruffoni e ignoranti. Ma chi sono questi giovani di oggi? Nel bene e nel male, sono aggressivi, arrembanti, dai denti affilati, e allo stesso tempo servili verso il forestiero di passaggio. Inutili sotto il profilo ideale e politico (nel più ampio dei sensi, essendo – l’elite di essi, molto snob – perlopiù disimpegnata volontariamente e altezzosamente nelle reali decisioni che riguardano la vita pubblica), per un paese ormai allo sfacelo, col timone rotto e tanti piloti inoccupati (la non-elite) che si incattiviscono nell’attesa (attendono cosa, elite e non? Che qualcuno glielo aggiusti, il timone, per i loro fini?). Si difendono attaccando: noi siamo l’unica risorsa di questo paese, noi creiamo profitto. Ciò, in parte, è anche vero. Non certamente dal punto di vista economico e finanziario (ché ancora in Italia, come a Scicli, si tira avanti coi risparmi dei papà), ma senz’altro da quello fatuo e apparente della manifestazione estetica. Intendo dire che si danno un gran da fare. Già, è un profitto estetico, si fingono belli.

E così si consumerà l’ennesimo avvicendamento sanguinolento in questo brutto bosco ombroso, ammaliati dalle seducenti parole di un’Alcina che si chiama turismo o, meno velatamente, profitto. Giovani sono i nuovi politici che sono responsabili e irresponsabili allo stesso tempo, giovani i professionisti e i nuovi aspiranti all’urbanizzazione che verrà (non si sa per qual motivo si continua a costruire case, in Scicli. Non potremo impedirglielo. Pazienza, purché qualcuno si inventi una sorta di giuramento di Ippocrate anche per gli architetti e gli ingegneri, come suggerisce Settis. Il quale ultimo suggerisce cose spesso inascoltate, ma sempre degne di fiducia), giovani i letterati, la ggente di cultura, i giornalisti, i benzinai, gli attori da commedia e da tragedia, chiunque altro si affaccia su questo palcoscenico disgraziato, tragico e comico allo stesso tempo. Su una cosa i giovani hanno ragione: i vecchi, quelli dell’ordinamento burocratico e politico immediatamente precedente al loro (ordinamento-struttura che verosimilmente conquisteranno) hanno generato l’obbrobrio e hanno seminato i germi di questa stessa giovanilità famelica. Il male oscuro forse proviene proprio da lì, intendo dalla burocratica società italiana. Dunque, se nel mezzo resta qualche vecchio che non ha colpa, o qualche giovane (che si sente vecchio) non intenzionato a partecipare a questa pazza rincorsa al profitto, non è certo colpa dei giovani. Dovranno soccombere tutti i vecchi, nessuno escluso, così è deciso. C’è una salvezza, forse!, ed è rappresentata dalla stessa figura finanziaria e simbolica cui aspirano i giovani virgulti: mi hanno detto che nei giorni scorsi a Scicli si sono visti dei tour operator russi, essi – se decideranno di acquistare tutto – potrebbero rendere un favore anche a coloro i quali non esiteranno a eliminare dalla coscienza tutto ciò che ancora li lega al territorio, e finalmente partire – liberi – veleggiando col poeta verso una nuova Bisanzio.

Un’ultima cosa: è probabile che qualche ggiovane si salvi (pochissimi) – così come del resto anche qualche vecchio (anche loro pochi) – tuttavia dovrà farsi avanti con proposte credibili, persino impopolari (sarebbero una manna, in un contesto dove ciò che piace a tutti è spesso molto brutto e nocivo), e alla svelta! Ciò che ho scritto fino a qui, ovviamente, è solo una mia opinione. Potrei sbagliarmi, potrebbe anche darsi che il tutto piace a tutti così com’è, no?

Voilà, le Garcon Ancien c’est moi, cit. Elio
Gaetano Celestre