IMG_0278

Inizia Mercoledì prossimo (domani) un nuovo ciclo annuale per il gruppo di lettura. In occasione di questa piacevole e ormai circolare ricorrenza (non tengo il conto degli anni, credo di aver dimenticato anche il numero dei miei, tanto non mi risultano importanti), ho rispolverato una vecchia base scritta che mi è stata utile (in realtà poi, a braccio, seguì altre linee interpretative) per il commento a uno dei romanzi più belli letti nello scorso ciclo annuale del Gruppo: La Zattera di Pietra di Saramago. Invitando chiunque ad avvicinarsi e partecipare alla discussione di domani (presso la Libreria don Chisciotte, alle ore 18:30, si parla di Dario Fo) e quelle a venire, voglio sostenere su queste pagine – ancora una volta, del resto – che la vera rivoluzione da attendere non è quella politica, ma senz’altro quella culturale. Buone letture!

La Zattera di Pietra

Da appassionato lettore di Saramago, addirittura folgorato a suo tempo dalla prosa fluviale dello stesso, mi sono condotto al piacevole cimento su La Zattera di Pietra (libro prescelto da altri in ordine all’attività del gruppo di lettura di cui faccio parte) con spirito forse di eccessiva sufficienza, fin troppo arrendevolmente consapevole – a torto – di ciò che vi avrei trovato scritto. Per quanto, in effetti, nessuna sorpresa mi giunge – come del resto è ovvio – dall’osservazione tecnica del “come” è stato scritto (ossia, le proposizioni che si susseguono come trascinate dalla corrente del Tago), invece grandi emozioni – e qualche riflessione che reputo non ignobile – sono senz’altro scaturite dalla lettura interpretativa di tale romanzo. Mi sono persino lasciato scappare sin dalle prime pagine, commentando a bassa voce con gli amici lettori, l’impressione personale che La zattera di Pietra fosse il più bello tra i romanzi del portoghese, sensazione che in fine confermo ancora oggi.

“Quando Joana Carda segnò il suolo con il suo bastone d’olmo, tutti i cani di Cerbère cominciarono a latrare, seminando panico e terrore fra gli abitanti, visto che da tempi remoti si credeva che quando in quel luogo i canidi, che erano sempre stati muti, avessero cominciato a latrare, tutto l’universo sarebbe stato sul punto di estinguersi.”

Questo l’epico e abbagliante incipit, da epos popolare però. Nel genuino atteggiamento narrativo di Saramago, distinguo quel proprio di chi costruisce il mito senza saperlo. Comincio l’incerta analisi di questo testo, così impregnato di panico sentimento dalla stessa prima pagina – la prima che già da sola basterebbe per discutere e pensare, vedere e immaginare oltre il tangibile – partendo giusto dal denunciato Silenzio precedente: appartenente a un tempo immemorabilmente lungo e antico, da accettare per fede. E la cara, sempre stimata Ragione? Il Silenzio, Saramago scrive e lascia intuire, sarà forse stato un tentativo di origine oscura, quasi certamente dovuto alla misericordia di moribonde divinità, “per vedere se col silenzio si cancellava dalla memoria l’infera landa.” È il silenzio che rende inesistenti le cose, come nell’ambito dei diritti umani, essi non esistono negli ordinamenti che non li prevedono, ciò per consuetudine di diritto internazionale. Si farà più avanti una seria discussione sui nomi, nel romanzo, o meglio ancora si dirà dell’importanza di dare nomi (Roque Lozano dice agli amici che “occorrono due condizioni perché le cose esistano, che l’uomo le veda e dia loro un nome), in probabile funzione apotropaica al fine di evitare quel silenzio che rende inesistenti le cose e gli uomini. È noto che i greci, i quali nominarono tutto, e i latini che classificarono e ordinarono quel Kosmos, suggerivano di lasciar segreti i nomi reali, celandoli dietro un altro nome (non per forza falso, del resto, ma solo altro), perché il nemico non se appropriasse per mezzo di formule magiche al fine di possedere le concrete denominate entità materiali. Così Città, persone e cose avevano più nomi, consentendo quella varietà e relatività essenziale nella lieta conducibilità delle vicende umane; logica e irrazionale al medesimo tempo, tra le altre cose base promiscua della narrazione caosmica di Saramago. Ritorno al libro: era stato il silenzio, e poi d’un tratto venne fuori il verbo, dei canidi, come atto eruttivo di nuove verità. Il perché di tutto ciò è pur sempre contenuto nelle prime righe: “non potendo il sempre durare sempre, come ci ha chiaramente insegnato l’età moderna”, dunque elevando il nostro contemporaneo a mezzo di chiarimento di antichissimi dilemmi. La velocità del trascorrere di questa età tecnologica esime dalle riflessioni, al meccanicismo costringe, per fondare utilità, e si finisce per esaltare in tal modo la Volontà, quando non proprio quella pericolosamente di Potenza.

È forse vero, e Saramago lo descriverà nelle successive pagine, che in fine qualora gli ingranaggi si dovessero inceppare, dovremo pur trovare il tempo di imparare di nuovo a riflettere, guardando le cose vetuste come se fosse la prima volta (“ed è soltanto di questo che hanno bisogno gli uomini, di tempo, ed è soltanto questo che hanno, il resto non è che illusione”). Questa è una delle verità desumibili dalle realtà naturali, le vere rivoluzioni naturali, simbolo delle quali potrebbe essere un continente che si stacca dagli altri per iniziare un viaggio misterioso, con andamento spiraloide. La tensione nel romanzo è dettata dalle pulsioni istintuali dei suoi personaggi che, consci dell’irrimediabile perduto equilibrio iniziale, ne cercano uno nuovo, e guardano al Cosmo sperando che esso glielo suggerisca, come forse ha sempre fatto verso tutti gli uomini esistiti sulla Terra.

È anche vero che la Ragione umana non può certo acquietarsi sulle placide acque della fatalità, né dovrebbe forzare innaturalmente il suo destino costringendolo a cose che egli stesso accetta con sofferenza. L’intelletto che osserva con attenzione e fornisce dati alla Ragione, produce teorie sulle cause. Tra di loro, discutono gli uomini: “Non voglio addentrarmi in inutili filosofie, ma mi risponda se vede qualche collegamento tra il fatto che una scimmia sia scesa da un albero venti milioni di anni fa e la fabbricazione della bomba atomica, Il legame sono appunto quei venti milioni di anni, Buona risposta, ma adesso immaginiamo che fosse possibile ridurre a ore il tempo fra una causa, che in questo caso sarebbe il lancio della sua pietra, e un effetto, che è stata la separazione dall’Europa, in altre parole, immaginiamo che, in condizioni normali, quella pietra lanciata in mare producesse effetti solo fra venti milioni di anni, ma che in altre condizioni, esattamente quelle di anormalità su cui stiamo investigando, l’effetto si verifichi poche ore, o pochi giorni, dopo.”

Se i cosiddetti butterflies effects si realizzassero pochi istanti dopo il battito delle ali, in condizioni di alterato equilibrio, che cosa accadrebbe, o meglio come potrebbe essere percepito dall’intelletto umano? In altri termini, siamo arrivati alla grande riflessione della fisica moderna. La risposta alla domanda, che non è certo oziosa né impossibile da investigare, chiarisce quei misteri sull’universo in merito ai quali l’uomo è stato in grado di porre attenzione, tutto ciò per cui è stato capace – ragionevolmente – di chiedersi un perché e sul quale sta ancora lavorando per una risposta che non sia delirio dogmatico. È come quella storiella di Re Giovanni II – trascritta nel romanzo di Saramago – che concede un’isola immaginaria a un nobiluomo, e quest’ultimo senza indugi si mette in mare per cercarla. Non tutto quel che è immaginabile esiste fuori dall’immaginazione, a discredito di un antico argomento ontologico; tuttavia, dato che non tutto l’esistente è reale (i nomi sono tanti, ed è mistero su molti dei reali nomi che danno valore alle cose; per meglio dire, le formule e le leggi fisiche sono tutte scientificamente confutabili), si dovrà trovare un giusto e razionale riferimento per una navigazione che si spinga all’immaginabile e oltre:

“A quegli osservatori che riescono a vedere un olimpo di dei e di dee al completo dove altro non c’è che semplici nuvole, o a quelli che, avendo davanti agli occhi Giove Tonante, lo chiamano vapore atmosferico, non ci stancheremo mai di ricordare che non basta parlare di circostanze, con la loro divisione bipolare in precedenti e conseguenze, come si da per ridurre lo sforzo mentale, ma è necessario considerare invece ciò che infallibilmente si situa fra gli uni e le altre, diciamolo per esteso e nell’ordine, il tempo, il luogo, il motivo, i mezzi, la persona, il fatto, la maniera, se non vi abbiamo messo e non abbiamo ponderato tutto, alla prima prova ci attende l’errore fatale. L’uomo, senza dubbio, è un essere intelligente, ma non quanto sarebbe auspicabile, e questa è una verifica e una confessione di umiltà che sempre dovrà cominciare da noi stessi, come si suol dire per la carità ben intesa, prima che ce la sbattano in faccia.”

Il romanzo, pervaso da circolarità in tutto il suo muoversi, giunge al farsi della luna (plenilunio) a circa metà del suo strano viaggio:

“Dalle parti di Santiago de Compostela il cane deviò verso nordovest. Doveva esser vicina la sua metà, lo si capiva dal rinnovato vigore con cui trottava adesso, dalla sicurezza dei garretti, dalla posa della testa, dalla fermezza della coda. Joaquim Sassa dovette accelerare un po’ la Due Cavalli per seguirne l’andatura e giacché si erano avvicinati, quasi a toccare la bestia, Joana Carda esclamò, Guardate, guardate, il filo turchino. Lo videro tutti. Il filo turchino non sembra lo stesso. L’altro era tanto sporco che, ormai, poteva essere stato turchino o marrone o nero, ma questo brillava nel suo vero colore, un turchino né del cielo né del mare, chi poteva averlo tinto e dipanato così, chi l’aveva lavato, ammesso che fosse lo stesso, e rimesso in bocca al cane dicendo, Vai. La strada è ristretta, è quasi un sentiero che costeggia le colline. Il sole sta per calare sul mare che da qui ancora non si vede, la natura è maestra nel comporre scenari adatti all’umana circostanza, in mattinata e per tutto il pomeriggio il cielo era stato coperto e triste, spruzzando la pioggerella gallega e adesso una luce fulva si spande sui campi, il cane è come un gioiello che brilla, un animale d’oro. Perfino la Due Cavalli non sembra l’affaticata macchina che conosciamo e dentro, i passeggeri sono tutti creature belle, la luce li colpisce e sono come dei beati. José Anaico guarda Joana Carda e rabbrividisce nel vederla così bella, Joaquim Sassa abbassa lo specchietto per guardarsi gli occhi splendenti, e Pedro Orce si contempla le vecchie mani, non sono vecchie, no, sono uscite da un’operazione di alchimia, sono diventate immortali, anche se il resto del suo corpo deve morire.”

È questo un momento apicale, su cui è importante riflettere senza lasciarsi trascinare dalle passioni, così come Saramago stesso suggerisce: “ci sono momenti in cui pure l’amore deve adattarsi a essere insignificante, perdonateci se riduciamo così quasi a niente il più grande dei sentimenti.”

Insolitamente le proposizioni diventano brevi, contrassegnate da punteggiatura definitiva. La descrizione dello scenario è simbolica: siamo dalle parti di Santiago de Compostela, non a caso, termine d’andata di un Cammino di pellegrinaggio e di purificazione tra i più famosi; la natura idilliaca serve da circostante ad un raggiunto ma involuto risultato di ringiovanimento. La pioggerella gallega, come oro potabile, ha bagnato i nostri infondendogli nuove forze. È proprio un processo alchemico quello al quale hanno partecipato inconsciamente. L’impressione momentanea è che il romanzo si concluda lì, tuttavia  la fase calante della luna è assolutamente necessaria affinché sia possibile l’attesa di quella nuova, la nuova vita, il dare alla luce delle partorienti. Precedentemente, come suggerimento d’indagine per il lettore, è stato scritto: “All’epoca giusta, con la pioggia, un po’ di verde si spargerà per questi campi color cenere, le sponde basse adesso sono coltivate a costo di sacrifici, seccano e muoiono le piante, poi rinascono e vivono, solo l’uomo non ha imparato ancora come si ripetono i cicli, per lui c’è una sola volta e mai più.”

Infatti tale ringiovanimento pacificatore dei pellegrini è solo momentaneo artificio dei sensi, finzione consolatoria appartenente all’ordine di una forzatura della natura, e non reale nuova vita. Tuttavia rinfrancati inizieranno da qui il loro ritorno, solo carichi di una consapevole mestizia in più, che si aggiunge come esperienza al precedente acquisito. Hanno raggiunto il loro Graal, e si chiama ancora una volta Silenzio: “nessuno dovrebbe morire prima di averlo conosciuto, il silenzio”. Tale silenzio, come detto, ci costringe alla riflessione. Dovremo imparare a fare come le piante, magari esercitandoci in esperimenti biologici arditi, tramite innesti di componenti umane nelle piante e viceversa? Sembra di risentire le parole del nonno Michele di Bonaviri: “ … le cose arcane non hanno senso, né posseggono corpo alcuno, se non quanto basta a farne inosservabili essenze vaganti, e ciò si avverava in primavera come nelle altre stagioni, durante le quali lasciavano le loro esalazioni, e scioglievano, corrompevano e annegavano la natura nel caos.”

Non è un invito all’indugio nella ricerca, tutt’altro, invece si cerca di porre in rilievo l’essenziale necessità di trovare una consonanza con la natura, mai costringendola e piegandola ai nostri gretti interessi individuali, ma piuttosto – lucrezianamente – trovando la giusta e media collocazione in essa. Saramago ancora, conclude:

“Mio Dio, mio Dio, come sono collegate tutte le cose di questo mondo, e noi che pensiamo di tagliarle o di annodarle quando vogliamo, unicamente per nostra volontà, ecco qual è il più grosso errore, e quante lezioni abbiamo avuto del contrario, … , ma a ciechi mostriamo, a gente incallita e sorda predichiamo.”, e continuiamo ad ignorare le liete possibilità che la vita dischiude continuamente dinanzi a noi.

Gaetano Celestre