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Dunque mettiamo subito in chiaro una cosa, se c’è un ambito a cui un nullafacente, di destra o di sinistra, è ben difficile che riesca a sottrarsi, è proprio quello della polemica senza risvolti pratici nell’immediato. È come quel tizio che entra al bar per un caffè e viene invischiato in una discussione sulle ragioni politiche delle imposte immobiliari. Ora, se tale tizio non ha nulla da fare, dialogherà piacevolmente con il resto degli avventori, e finirà per prendere una gassosa allo scoccare della mezz’ora di dibattito.

Veniamo al punto, recentemente un quotidiano locale ha deciso di allegare il Mein Kampf al numero in uscita. Apriti cielo!, purtroppo ne è scaturita una ovvia bufera sulla scelta editoriale. Polemica becera da sinistra, ma in parte anche da destra. Sintetizzo la mia posizione sul punto e procedo immediatamente oltre:
“A me pare una gran minchiata (sottintesa “la polemica”)! Il Mein Kampf andrebbe letto, invece. Non c’è nulla di meglio per convincersi di quanto è irrazionale, stupido e inutile, fondare le proprie basi ideologiche sui vaneggianti dogmi di un tizio col baffetto ridicolo. Bisognerebbe addirittura leggerlo a scuola, per acclarare e manifestare a tutti, con fondamento, le falsità non dimostrate e indimostrabili che vi sono scritte. Altra faccenda: se si demonizza il Mein Kampf, finiremo per avere dubbi sul De Bello Gallico, e infine il passo che ci distanzia dall’erigere una pira sarà veramente breve.”

Perdonate l’auto-citazione. Occorre adesso fare chiarezza, in ogni caso, su quel che si intende per “cultura di destra”, e stabilire se essa esista realmente. Semplifichiamo: date le due pulsioni ancestrali, quella di contrazione alla singolarità (individualismo) e quella di espansione al resto, ciò che si trova fuori dal sé (socialismo, come accezione ampia), non potremo che dedurne delle concezioni teoriche circostanti. Non nasconderò al lettore che ho sempre intravisto nel mio personale percorso di ricerca, tra i viottoli che conducono alla spiaggia e quelli che abbreviano la distanza al sollievo del luppolo, la necessità di una sintesi tra le due posizioni. Per la verità, come indicava Rosselli, l’esigenza si fonda meramente sul bisogno di ricerca, cioè più sull’approssimazione alla sintesi che non sul reale raggiungimento della stessa. Una utopia realizzata, quando essa dovesse venire proclamata a gran voce, suonerebbe come un fallimento della forma idea nella sua purezza. Accertata, o data per tale implicitamente, l’esistenza di una cultura di destra e una di sinistra, in forma esoterica quanto essoterica, l’ulteriore approfondimento che mi propongo con questo scritto è di intercettare, perlomeno superficialmente, quel che potrebbe dirsi “cultura di destra moderna”, ossia quella che si sviluppa come reazione al secolo dei lumi, conseguenza del presunto fallimento del razionalismo. Sarebbe più esatto, a mio avviso, parlare di come l’uomo moderno sia stato disatteso nelle personali aspettative, più che di fallimento del ragionamento. E, sempre come personale opinione, la preferenza concessa a Marx – cioè il vantaggio teoretico fornito rispetto alle filosofie di destra, ma anche l’insuperato primato conseguito nei confronti dei suoi stessi seguaci – è da pensare nella permanenza dell’ideale illuministico e lo sforzo applicato a un uso puro e pratico della Ragione che risulti avulso quanto più possibile dai desideri individuali (nei limiti delle conoscenze del tempo in cui veniva scritto Il Capitale, Marx è superiore per la sua forse involuta discendenza kantiana, più che nei post-hegelismi. In altre parole ancora, opinabile è la risoluzione finale del Manifesto, ma – come risaputo – non certo l’analisi socio-economica del Capitale), ciò è dato non come verità rivelata, nel testo, ma è rinvenibile a tentoni raziocinando sui fatti descritti. Concludo allora il preambolo, dando per assodato che una cultura destrorsa equilibrata esista, legittima tanto quella di tipo socialista. Entrambe del resto, in parte, hanno una discendenza comune nel pensiero liberale, figlio anche questo del secolo dei lumi.

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Lo adombravo già poc’anzi, l’inizio del novecento ha visto invece sorgere, dalle ceneri di quei lumi e dalle insoddisfacenti soluzioni conservative offerte dalla decadente borghesia aristocratica, una sorta di impegno estremo ad opera di alcuni pensatori, esplicitatosi come tentativo di fondare il ragionamento, anche quello pertinente all’uomo nuovo così come lo si immaginava (in cerca di una ragione spirituale), sulla pulsione individuale, e in sostanza (o strittu strittu) su ciò che l’uomo sente nel tempo stesso che sta vivendo. Piaccia o meno, il discorso è interessante, ha un qualche fondamento, anche se è molto difficile definirlo come quello del ragionamento (cioè, è molto opinabile fondarlo come principio del ragionare). Voglio dire, per chi aderisce, sarà fondamentale ideologicamente, per chi non aderisce sarà interessante come lettura amena o persino con lo scopo di comprensione dell’altro da sé. Quel che ho sempre pensato, leggendo il Mein Kampf, è che Hitler, non essendo certamente un fine pensatore, sia rimasto confuso da quel che Heidegger, Schmidt e altri andavano dicendo, per non parlare delle interpretazioni di quel che Nietzsche aveva a suo tempo “rivelato”. Il ragionamento fondante di Hitler è più o meno questo: io sono l’uomo del destino, Sigfrido finalmente ritornato, dunque quel che dico è ciò che sento, ciò che il tempo significa, io lo sento perché sono il superuomo che ha il compito fatidico di risvegliare le masse, tutti devono convincersi di ciò, tutti sono già convinti (loro malgrado).

Il lettore avrà compreso che il limite enorme di questo ragionamento sta tutto proprio nel fondamento individualista. Il ragionamento comincia cioè a seguire una catena causale solo dopo un big bang del tutto inspiegabile. Il fondamento, così, non è per nulla razionale, ma è costretto dalla volontà ad esserlo. In termini attuali si tratta di una teorizzazione vaga dell’uno vale uno, da cui può venir fuori in ogni momento un uno più forte degli altri. La faccenda prese quella piega ben nota, drammaticamente, da cui le distanze anche della destra di pensiero. Non solo quella classica, conservatrice, di cui portavoce si fece Thomas Mann, ma anche quella più radicale ed estrema, ad esempio quella jungeriana (Junger fu latore di una nuova istanza della destra moderna, oggi ormai divenuta classica, quella tendente al disimpegno. Una linea che in parte vado abbracciando sempre più, pur partendo in sostanza da sinistra. “A che pro scegliere, infatti, se la situazione non consente la scelta?”, si chiedeva Junger “… La scheda elettorale offre al nostro elettore l’occasione di prendere parte a un gesto di plauso.” Ma lo preferisco di più quando si discosta dalla escatologia individualista,  scrivendo ancora: “Non dobbiamo dimenticare che anche il silenzio è una risposta”). L’interpretazione dei fatti affidata all’individuo è comunque molto pericolosa, se non soccorre la conoscenza, il buon senso, o il confronto di moderazione con il resto della società (meglio sarebbe combinare tutti e tre gli accidenti contemporaneamente). Premesse tutte queste gran cose, ribadisco, non vedo perché non leggere il Mein Kampf. Dicevo, leggiamo di Napoleone, e persino i pensieri stessi di quel nanerottolo corso, e lo facciamo con una serenità che risulterebbe incomprensibile a un uomo dell’Ottocento (Napoleone era l’Anticristo per molti!). Giulio Cesare, poi, era nient’altro che un intrallazzista guerrafondaio, per di più sterminatore di popoli, eppure oggi ci sta quasi simpatico. E allora, con senso di responsabilità comprenderemo certamente come non debba persuaderci di eventuale razionalità Hitler quando scrive, ad esempio: “Eppure, un giovane contadino può avere più qualità del figlio di una famiglia altolocata, anche se ha meno cultura generale. La superiore cultura del primo, per se stessa, niente ha a che spartire con la maggiore o minore capacità, essa trae la sua origine dall’educazione ricevuta e dalla quantità di stimoli a cui il bambino è sottoposto nell’ambiente in cui vive. Se anche il dotato figlio di contadino fosse stato possibile crescerlo in un certo contesto, ben altre sarebbero le sue prestazioni intellettuali.”

Sembra molto bello e ragionevole, e invece, prima di avventurarsi nei revisionismi occorre fare opera di contestualizzazione, non prescindendo dalle finalità di quel Uno. In altre parti del testo, così scrive il poco simpatico baffetto, criticando l’eccesso di istruzione: ” … va perduto il fine ultimo di questa grandiosa istruzione: perché esso non può limitarsi a rendere la mente capace di apprendere, riversandovi un ingente numero di materie d’insegnamento, ma deve consistere nel fornire quel tesoro di conoscenza di cui il singolo ha bisogno per la vita a seguire e che, attraverso lui, torna a vantaggio della comunità.”

In pratica, al contadino dotato, Hitler voleva impartire solo gli insegnamenti che egli stesso riteneva più opportuni. Di fatto così è stato, purtroppo:
“Dunque, uno Stato nazionale deve partire dalla premessa che un uomo di minore cultura scientifica ma sano di corpo, di indole buona, ma forte, deciso e volenteroso, ha per la comunità maggior valore di un debole intelligente e raffinato. Un popolo di dotti, che oltretutto fossero pacifisti poltroni, degenerati nel corpo e senza volontà, non solo non otterrà il paradiso, ma non si assicurerà nemmeno l’esistenza su questa terra.”

Ho selezionato, infine, un paio di proposizioni hitleriane tra le più decenti. Si pensi alle altre! Magari lo si faccia sorridendo, con spirito yiddish (Sono forse da prendere sul serio i consigli di Hitler esperto di moda? Certo sarebbe fiero del modo in cui dame e cavalieri del nostro tempo si palesano fisicamente senza troppi impacci: “Anche l’abbigliamento dei giovani deve conformarsi a questo scopo. È doloroso vedere come anche la nostra gioventù sia già soggetta a una pazza moda che capovolge il vecchio proverbio: “l’abito non fa il monaco”. In particolare, nei giovani l’abbigliamento deve essere posto al servizio dell’educazione. Il giovane che in estate va a spasso con calzoni lunghi e coperto da indumenti fino al collo, con quel modo di vestire già frena l’impulso alla sana fisicità che abbisogna di un pizzico di ambizione e, ammettiamolo, anche di vanità. Non di quella vanità che consiste nel mostrarsi con indosso capi di vestiario che pochi possono permettersi, ma nell’avere piena consapevolezza di possedere un corpo bello, ben strutturato, che ognuno volendo può cercare di formarsi. Tutto questo può tornare utile più avanti, perché la giovane in questo modo può avere maggiore conoscenza del suo cavaliere. Se ai nostri tempi la prestanza fisica non fosse posta in secondo piano dalla nostra moda trascurata, non sarebbe possibile che centinaia di migliaia di ragazze fossero sedotte da ripugnanti bastardi ebrei dalle gambe storte.”); meglio riderci su, piuttosto che simulare contrite ipocrisie da mea culpa in ritardo. Le più grandi tragedie umane hanno per anticamere le stanze dell’ipocrisia e del buonismo. Di fatto sarebbe meglio considerare le cose con lucidità, e alla stessa stregua si dovrebbe invitare a leggere Hitler, piuttosto che elevarlo. L’Indice affascina, la proibizione seduce.

 

Ma torniamo alla visione serena di cui oggi necessitiamo per l’analisi che mi proponevo in principio. L’uomo che si fa, come individuo, si forma e si erge al di sopra dello stato arcadico di natura, per mezzo delle proprie qualità e abilità (come Odisseo, l’artigiano esperto, fabbricatore di inganni ma anche di sostanziali soluzioni di adeguamento al vivere quotidiano. Si pensi al palo conficcato nell’occhio di Polifemo, ma anche al meraviglioso talamo ricavato con arte da un albero), era nient’altro che nostro nonno (e anche l’uomo americano, artigiano, contadino, imprenditore, etc, etc … cantato da Whitman), la moderazione della volontà di potenza discesa al buon senso di una buona volontà pratica, caratteristica essenziale della società rurale (elogiata spesso anche da Pasolini, in tal senso); tale eroe del quotidiano era cioè il padre di quella società socialdemocratica europea che ci ha in qualche modo consentito una piacevole parentesi di convivenza lieta (una sintesi approssimativa di istanze ideologiche), perlomeno sino al l’avvento del nuovo millennio. Ci sono dei pregi innegabili da rilevare nelle radici intellettuali della Destra culturale, e questi prescindono dalle follie nazifasciste. La serenità di visione dovrebbe oggi consentirci di valutare nel giusto peso i meriti di D’Annunzio. Leggevo qualche giorno fa di un suo emulo giapponese, tale Harukichi Shimoi, di cui tutto ignoravo. Un vero peccato, persino da Sinistra. Per quale motivo ideologicamente schierandoci altrove non si può apprezzare l’arte poetica e – con gusto intellettuale – la realtà estetica di alcuni fenomeni storici (o anche la realtà storica di alcuni fenomeni estetici, quale ad esempio il funzionale e chiaro urbanismo degli architetti del ventennio)? Mi permetto di ricordare alcune nozioni su Shimoi, pochissime, rinvenute in rete: visse per anni in Italia, studiò Dante, fu docente di giapponese all’Università Orientale di Napoli. Nel 1917 si arruolò nell’esercito italiano, e divenne persino un “Ardito”, insegnando ai suoi commilitoni l’arte del Karate. Anzi, fu il reale importatore della disciplina in Italia. Fu a Fiume, e funse da collegamento tra Mussolini e D’Annunzio. In seguito divenne amico di Indro Montanelli, dopo la guerra. Ebbe del Fascismo una visione romantica, come proseguimento delle lotte risorgimentali, considerandolo un movimento di tipo essenzialmente “spirituale” (analisi in gran parte errata, ma rilevante e meritevole di studio). Shimoi fu traduttore di una gran copia di opere dal giapponese all’italiano e viceversa, attingendo dall’amico camerata abruzzese, passando per l’amato Dante, infine Basho sull’altro versante, una delle sue ispirazioni poetiche. A Tokyo fu eretto un tempio a Dante su suo incoraggiamento.

Davvero non capisco in nome di quale buonismo, la figura di Shimoi è tanto dimenticata o da vituperare, tale da impedire agli editori italiani, ad oggi, la pubblicazione di sue opere di poesia. Forse non abbiamo più ben chiaro come tutte le faccende del mondo siano collegate tra loro: una buona cultura di sinistra si prepara sviluppandosi in contraltare ad una altrettanto seducente istanza di ritorno alla tradizione. Non c’è destra senza sinistra, non c’è alto senza basso, e viceversa. Forse non solo l’uomo di destra, ma anche quello di sinistra, deve tornare al suo intimo. Intendo come forma di indagine personale, col fine di ritrovarsi. Basho scrive: “E intanto il sole già si cela oltre il monte, e quand’è notte rimango a sedere tranquillo nell’attesa che si levi la luna luminosa, accendo una lucerna e dialogo sul bene e sul male con la mia ombra.”
Sembra quasi una sorte di fuga nel bosco, con benedizione della Dea Bianca, di rimando a quanto scriveva Junger secoli dopo, invece Basho va oltre: “Non intendo dire, con questo, che io mi nasconda tra prati e montagne perché odî il mondo e ami la solitudine. Sono piuttosto simile a chi, fragile di salute, evita il contatto con la gente. Ripenso agli anni e ai mesi infelicemente vissuti, e alle colpe commesse a causa della mia inadeguatezza: tentai inutilmente di ottenere benefici da un ufficio governativo o di varcare la soglia di un monastero; ora tempro il mio corpo abbandonandolo a venti incostanti e a vapori, mi affatico l’animo per cogliere la bellezza di un fiore e di un uccello. Da qualche tempo questo è divenuto un mezzo per sopravvivere.”

È giusto ambire ad una pausa di riflessione, sia anche partendo da quanto di irrazionale è pure nell’uomo, non certo per sentire lo spirito del tempo e infine comunicarlo agli altri, poiché è vero anche per i destrorsi che se uno vale uno, ognuno sentirà qualcosa di diverso. Piuttosto si tratta di capire quale senso dare e in quale collocazione inscrivere, sempre come artificio, il proprio sé. L’io lasciamolo al sogno non sognato! Borges, che appartiene senz’altro alla cultura di Destra novecentesca, pur non dando adito a possibilità di deduzione moralistica, un qualche insegnamento ha pur lasciato. D’Annunzio cerca di impartire il primo insegnamento per una buona ricerca al fanciullo che è in noi, qualcosa di molto vicino all’io se vogliamo: “Se interroghi la terra, il ciel risponde; se favelli con l’acque, odono i fiori.”

Dal bosco, prima o poi, l’individuo tornerà, sarà cambiato, ed è probabile che porterà con nella bisaccia una buona intenzione di partecipazione – rinnovata – al consesso sociale; oppure tornerà a bisaccia vuota, ma in ogni caso tutto il circostante sarà comunque mutato ugualmente, sul piano cosmico, e quindi nulla sarà stato vano. Nulla è perduto, quando la condotta si fonda sul rispetto della ragionevolezza e del prossimo. La chiarezza è nelle parole di Basho:
“Se la generazione degli abitanti muta,
persino di sterpi una capanna
può divenire una casa di bambole.”

Poi, in effetti, il senso più recondito della fiducia e dell’ottimismo marxiano era riposto proprio nella verità di progresso continuo degli eventi. La tecnologia è un riflesso succedaneo a tale progredire del tempo, quel che manca invece è la capacità di riuscire in continuità a utilizzare bene i propri mezzi (Odisseo ogni tanto si perde e deve viaggiare per ritrovarsi. Il fine è sempre quell’adeguamento approssimativo al vivere in comodità, per mezzo delle abilità tecniche, nel buon uso suggerito dal ragionamento. Questa è “destra”. “Sinistra” dovrebbe essere la seconda venuta di Odisseo a Itaca. Quando, dopo aver piantato il remo oltre le Colonne d’Ercole, sarà pronto per vivere con il resto della società, in lieta convivialità). Quel che manca molto spesso, tra chi si pone a destra e chi a sinistra nei sentieri che ascendono al monte della vita, è una conoscenza che proceda di pari passo alla tecnologia e ai tempi in continuo mutamento.

Gaetano Celestre