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Mi sono pacatamente indignato, ma io – intendiamoci – sono uno che si indigna per cose futili (è per via del fatto che mi interesso solo di cose futili, come sarà chiaro a tutti, alla fine di questo articolo), o quanto meno per cose che molto spesso anche agli altri appaiono futili. Per cosa mi sono indignato è presto detto. Certo non per la miracolosa svolta reazionaria di Benigni, dato di fatto conclamato da tempo, e infine riaffermato con l’ultima sua esternazione a favore del Sì al Referendum costituzionale. Proprio per nulla mi indigna Benigni, poiché in fondo in fondo, e con grande sincerità d’animo, davvero devo confidare a me stesso di non aver capito quale preferenza, tra il Sì e il No, sia più reazionaria. Io voterei a favore di una eventuale scelta razionalmente progressista, ma dove essa risieda proprio non so. Forse il mio dubbio è nell’incomprensione della verità ultima, millenaria se vogliamo: tutto oggi è reazione al progresso. Lo sconfortante scenario sociale, del resto, suggerisce qualcosa del genere. Avendo un po’ di tempo, si potrebbe indagare l’opportunità della rivelazione di Benigni, ma infine tempo non c’è, e quindi se la sbrogli lui. Dicevo che mi sono indignato, ed è per via di un accostamento ardito tra idee conflittuali. Che sia chiaro, io adoro le contraddizioni, ma in questo caso ho letto una bestemmia che, per i miei personali dogmi (e superstizioni socialiste), risulta inaccettabile. Il monstrum è apparso sulla medesima pagina di un noto quotidiano nazionale: in primo piano un articolo commemorativo della prima edizione ristampata dell’Orlando Furioso, e distaccata (quasi a far intendere uno starsene per i fatti suoi, con piglio di indipendenza), una citazione di Wallace Stevens: “La vita non è persone e scena, ma pensiero e sentimento”. L’accostamento di idee è stridente (e dire che di questi tempi mi piace crogiolarmi nei giochi di parole e di idee, betise da nullafacente, nulla più. Come l’immagine ideale delle prossime elezioni amministrative a Scicli, in corrispondenza alle Satire di Orazio, per esempio).

“Già in ogni parte gli animanti lassi
Davan riposo ai travagliati spirti,
Chi su le piume, e chi sui duri sassi,
E chi su l’erbe, e chi su faggi o mirti.”
Così Ludovico Ariosto descrive la scena, una scena di sonno (e di sogno), di cui gli attori sono proprio quelle “persone” cui lo Stevens pretende di rinunciare. Gli animanti sono animate entità, per il loro stesso animarsi sul set, capaci di rendere animato e vivo il circostante. Il Furioso, la faccio breve, è testo prediletto da socialisti marxiani, probabilmente per la continua invocazione, nei suoi Canti immaginifici, della famigerata “struttura” come chiave di lettura di esistente ed esistenza. Se la struttura è il mondo, noi facciamo parte di un elenco, né più né meno diverso da quelli spesso enunciati in letteratura (tra gli altri, tanto mirabilmente descritti e trascritti da Eco o da Borges, ad esempio, ma anche nei testi biblici o negli affini di altre culture). Come in una canzone di Lucio Dalla, tutti stanno assieme, dal cane a quello con la faccia da assassino, tutti e due con lo stesso sguardo che sembrano “Cristo con San Pietro quando erano in ritardo”, il policeman, la confusione di gente che pullula nel Corso, ancora, il bambino che mangia il tonno, il ragioniere e la volante che arriva volando e fa un strage da follia orlandesca, il bagnino ancora in mutande, i due gemelli che guardano i lavori in corso, quelli del bar che bevono grappa, il salumiere e il tabaccaio coi loro vetusti rancori mai sopiti, e così via. Oppure in quella storia dove tutti attendono che qualcosa avvenga, il regista che aspetta la star al ristorante, il ragazzo aspetta che se ne vada il proprietario, il dentista innamorato di un dente, il taxista paziente, la ragazza dalle grandi tette. I personaggi non hanno alcuna profondità psicologica, come quelli del Furioso. Vagano per l’esistente, esistendo, guidati dalla sola volontà di seguire il desiderio del momento, e così si incontrano e si scontrano generando una rete di relazioni. Non è una griglia rigida, ma elastica come quella dei pescatori. “Noi come voi”, diceva Dalla. Noi siamo come loro, noi stessi ci procuriamo la rete presso cui ci piace tanto imbrigliarci. Sembra perverso, ma è giustificato dal piacere di vivere. Noi, come Orlando, Astolfo, Ferraù e comitiva, inseguiamo sogni e, in virtù di questo muoversi continuo, viviamo e facciamo vivere. Il sentimento cui allude lo Stevens, invece, è in fondo una presunzione, l’opinabile ipotesi – sottesa – che l’uno sia diverso dall’altro. È un’idea che pericolosamente può condurre all’odio verso il prossimo, o nel migliore dei peggiori casi a sentirsi superiore ad esso. Il sentimento individua l’entità e la conseguenza è solo scontro, ben difficilmente – o solo ipocritamente – eventuale incontro. Forse è questo il problema della nostra contemporaneità, una scena teatrale popolata da gente (persone che inseguono sogni senza saperlo) che si crede per forza meritevole di successo, e perciò sgomita pur di raggiungerlo, anche a discapito della felicità. Non esiste il sentimento? Esiste, certo che esiste, come la libertà (irrinunciabile sogno dorato di ogni uomo), ma solo dentro l’individuo, ed è perciò da intendersi come “volontà” da moderare in funzione della lieta convivenza. Mi viene spesso il dubbio che il rafforzamento della volontà per il tramite sentimentale (e psicologico) non sia altro che una copertura, una giustificazione ai nostri bisogni, o peggio ancora ai nostri desideri del momento, una velatura melensa sui miseri e gretti egoismi.

Forse null’altro siamo che spauriti personaggi (ossia persone, maschere) inconsapevolmente all’inseguimento di vaghi sogni, alla rincorsa – anche inerziale talvolta – di tutto quanto è oggetto delle nostre brame. Non c’è altro, poiché dal punto di vista generale, dall’alto, tutti siamo senz’altro uguali e minuscoli come formiche, inutile negarlo. Sì, è vero, sembrano movimenti insensati quelli attorno a un formicaio, eppure conosciamo con certezza la fondatezza della complessa organizzazione sociale delle mirmidoni formiche. E allora? La verità è in mezzo, probabilmente. Gli individui, da esistenti, percepiscono l’esistenza, ognuno in maniera diversa, tale naturale contrasto è sanabile solo nell’idea della socialità, come moderazione di velleità infondate. Nessuno di noi è veramente superiore all’altro, altrimenti dovremmo accettare di poter essere annientati da sopraggiungenti alieni superiori (il piede che schiaccia un formicaio non distingue una formica dall’altra), o addirittura farci adorare come divinità da esseri inferiori. Non dico che mi spiacerebbe troppo vedere una tizia lavare i miei piedi con i suoi capelli, ma evidentemente, oltre ad essere un inconfessabile e probabilmente immodesto anelito, lederebbe una mia personale esigenza, quella di impormi l’imperativo categorico come scelta di vita (“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di legislazione universale.”, oppure riformulata “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo.”).

L’amore stesso, come sentimento, è da moderare, il suo eccesso – è cosa nota – può divenire stalking. E allora quale differenza c’è tra noi e i personaggi di una canzone di Dalla, o della mirabile opera dell’Ariosto? Nessuna, credo, penso. A noi tutti spesso capita – inconfessabilmente – di considerare l’altro solo un mezzo, ed è per questo che occorre imporsi autonomamente la razionale soluzione kantiana. Si badi bene, non perché sia per forza vera, ma solo per via della sua essenziale bellezza, o meglio ancora per l’innegabile risultato di felicità che potrebbe scaturirne. Si tratta di una piacevole finzione da mantenere in vita. L’Orlando Furioso è un’opera meravigliosa, perché generatrice di immagini (immaginifica, scrivevo prima), contenitore di persone e di eventi straordinari. Lo spazio per la fantasia è quel che l’uomo, animante animato, deve cercare nella sua quotidianità ordinaria. Giordano Bruno insiste sulla capacità dell’immaginazione a riformulare i ricordi, a riorganizzare le immagazzinate informazioni acquisite nella veglia dell’attività laboriosa. Tale divina attività è alla base della capacità di animare il circostante, in altre parole solo così l’animato diventa animante, non certo autoproclamandosi meritevole possessore di una profondità psicologica tale da renderlo autorevole pensatore o magnanimo possessore di grandi sentimenti, per cui inevitabilmente destinato al successo individuale. Ancora Kant sosteneva che occorresse ripudiare la buona azione compiuta nel momento più agevole, come l’obolo elargito dal ricco, bensì suggeriva si dovesse auspicare a una imposizione di buona volontà utile per ogni stagione, assolutamente sottratta al sentimentalismo. Non so se sono stato chiaro nella esposizione di queste ipotesi, ma suppongo che il conviviale relazionarsi di noi esseri umani sia irrinunciabile necessità da ripristinare al più presto. È anche un discorso politico questo, soprattutto politico forse, prima che culturale. Ma essenzialmente è un discorso futile.

Gaetano Celestre