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Don’t eat the yellow snow!, avvertiva Frank Zappa nel 1974. Resto fermo a fissare il giallume apparso d’un tratto dinanzi a me, come una macchia sulla neve, e non nascondo di sentire una perversa e disgustosa bramosia che dovrebbe in teoria indurmi a leccare la stretta e circolare area interessata dalla colorazione anomala, alterazione del candore preteso. Perché? Sostengo che tale smaniosa tentazione sia parte di quelle irregolari pulsioni pertinenti all’irrefrenabile semi-subconscio masochista. Cosa resta? Slittare lentamente con gli scarponcini acquistati da Decathlon (roba che mio nonno avrebbe vinto la guerra, e quindi per fortuna che il Regio Esercito non le dava in dotazione), auto-ironizzando tramite la finzione di qualche scena tratta da un’inedita danza sul ghiaccio di cui io sarei – ancora una volta teoricamente – protagonista sullo sfondo di famose palmipedee note Tchaikovskiane. I luoghi delle idee, in forma di immagini, sorgono come fumi sfiatati da alambicchi tortuosi sino ai periferici peli delle folte sopracciglia, facendomi immedesimare nelle vesti di Inuit, e realmente mi pare di muovere la gamba tremolando in equilibrio instabile sul pack. Il segreto sta tutto nel muoversi lentamente, molto lentamente, alzando i piedi e abbassandoli come se si dovessero pestare uova, col busto inclinato leggermente in avanti, badando di guardare solo a terra, senza distrarsi. Non basta la meticolosa concentrazione sul passo, ovviamente, poiché v’è da porsi – essenzialmente – in attività sotto il segno della pazienza e l’accettazione della situazione-circostanza. Come dire?, non c’è nient’altro da fare: così è, così stanno le cose! E dunque alla fine, la costante attenzione individuale, il rilassamento, l’accettazione di dati forniti da un livello superiore inesigibile, con prudenza può gratificare il deambulante infreddolito di una tazzina di caffè fumante al bar situato all’agognata distanza di circa trecento interminabili metri.

Alla stessa stregua sembra di vivere le circostanze sociali attuali. Perdonate le lungaggini del mio premettere. Che altro possiamo fare noi, piccoli individui, lasciati soli sul declinare di una buona civiltà che si disgrega? Umberto Eco scriveva in una bustina, poco prima di morire, lamentandosi della soluzione ancora non reperita al quesito sulla “liquidità” gentilmente offerto da Bauman; su La Lettura di domenica 8 Gennaio 2017 (unico inserto culturale che sono riuscito a reperire in queste glaciali giornate) da molti articoli traspare l’idea che manchi un’utopia, anzi sia assente addirittura la volontà di generarne di nuove, forse per la paura di un fallimento da presagire sulle basi delle esperienze passate. Le sapevamo già, tutte queste cose. Demoliti i muri degli ideali politici alla fine del secolo scorso, molti (potenzialmente tutti) avevano già acquisito perlomeno il presentimento del rischio di restare senza casa. E così con circospezione l’individuo si muove, ripeto, accettando quel che gli capita e cercando di mantenersi in equilibrio – pur precario – per evitare dolorosi scivoloni. In altre parole, limitando i danni. A Scicli (spero di tornar presto), invece, è accaduto qualcosa di potenzialmente positivo, in controtendenza al clima generale politico nel mondo: un uomo eccellente, proveniente da ideologie e militanze di tipo socialista, appassionato cultore di filosofia – in particolare quella spinoziana – ha vinto le libere elezioni amministrative di circoscrizione, insieme a una coalizione sostanzialmente giovane e auspicabilmente preparata. La giunta si instaura in un contesto-consiglio comunale che rappresenta, in teoria, più o meno le stesse caratteristiche descritte per la sola maggioranza. Io non ho votato nessuno di costoro, né mai avrei potuto, né mai potrò in futuro. Intendiamoci, grandi cose mi attendo da questa Amministrazione; ipotizzando pudiche presunzioni dottrinali da dilettante lettore di filosofia, mi lascio facilmente persuadere dalla occasione dorata che si offre alla cittadinanza sciclitana: la volontà di integrazione solidale del socialista, coordinatamente alla visione ampia, totale, spinoziana (Deus sive Natura), con l’ausilio delle braccia operative di questa bella e intelligente gioventù, saranno mezzi di rinnovamento della società comunale? Spero di sì!, le condizioni sono ideali e forse irripetibili. Le rivoluzioni, anche quelle gentili, han da ripartire dalle periferie. No, non avrei mai potuto votare – al netto delle mie partitiche attese politiche, pur di Sinistra – quella che ritengo l’ultima possibilità di salvezza, né posso d’altro canto nascondere ciò che si vocifera dei “filosofi al potere” in seguito alla lettura della Repubblica di Platone o di certi intenti malcelati nel Contratto di Rousseau. Non dimentico nulla, ma non mi affido facilmente alle dicerie, anzi i filosofi godono di tutta la mia simpatia, e non vedo l’ora di vederli all’opera. Addirittura azzardo la contro-ipotesi che sia proprio questo il tempo per i filosofi al potere, che occorra dargli credito e fiducia, e attendere, etc, etc…

Non vogliatemene, ma proprio non mi riesce di votarli, questo lo voglio ribadire; non potrei mai farlo senza l’appoggio dell’Ideale politico di Partito, e soprattutto – in via assolutamente principale – non voglio arrischiare la mia personale responsabilità di un eventuale futuro fallimento della Amministrazione negli auspici Illuminata. Non potrei proprio sopportarla la disillusione, e dunque mai mi verrebbe in mente di promuoverne eventuali origini. Le sole mete illusorie che mi potrei concedere nell’ambito sociale (da elettore e cittadino) sono quelle di approssimazione alle grandi utopie dell’Uomo. In conclusione, aspettando che altri risolvano le questioni concrete del quotidiano, o che qualcuno proponga nuove larghe e raggruppanti Utopie salvifiche (laiche e religiose, purché strumentali ai nuovi tempi, dunque in qualche modo “nuove”), la noia mi attanaglia sul pack e sorge in me il dubbio che quella voglia di leccare le chiazze giallastre sulla neve sia uno di quei sintomi della malattia generazionale e civile che da tempo ci costringe al gemito lamentevole piuttosto che alla decisione risoluta in stile Quinta di Beethoven. Abbiamo necessità di “cose nuove”, di soluzioni che cambino totalmente le “regole del gioco”, e che ci conducano fuori da figure retoriche, allegorie, metafore e sinonimi utili alla descrizione paesaggistica di questo interminabile cabotaggio attorno all’isola dei problemi. Per il momento – troppo razionalmente forse – mi impedisco quel “dovere” di leccare la macchia gialla pur di cercare novità da sondare, saldamente mantenendomi in bilico nella contraddizione del vivere, infine inoltrando a me e agli altri il più canonico degli “in bocca al lupo”.

Gaetano Celestre