Mafia e Miseria
- 22 Marzo 2014 - 8:41
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Il coinvolgimento orizzontale delle individualità, il porre in rete i mezzi culturali utili a formare “gruppo”, la cooperazione sociale, queste sono le basi di ogni possibile pianificazione per il futuro. Ed è questo l’indirizzo più esatto, per una buona politica anti-mafia. Ho avuto l’onore (e il piacere, come si suol dire), venerdì 21 Marzo 2014, di partecipare ad un incontro presso l’Auditorium del Liceo “Q. Cataudella”, in occasione della “Giornata della Memoria e dell’Impegno Contro le Mafie”. L’evento in questione è nato dalla collaborazione tra Club UNESCO di Scicli, Libreria Ammatuna, il quotidiano Essepress (per mezzo della pertinente introduzione-moderazione del giornalista Bartolo Lorefice), il prof. Rosario Mangiameli dell’Università di Catania e infine (ma solo per porne in risalto la valenza) gli attentissimi ragazzi delle quinte classi delle sezioni liceali e ITC del comprensorio sciclitano. Al fine di concludere il prima possibile il preambolo, pensando anche di cogliere la schiettezza di pensiero dei coordinatori scolastici interessati, mi limito ad un breve cenno elogiativo nei confronti della prof.ssa Burgaretta (esatta e puntuale moderatrice) e del Preside Enzo Giannone (che ringrazio per la grande disponibilità e competenza), ricordando al lettore di questa rubrica che una Scuola funzionante è il primo e il più importante dei messaggi anti-mafia, tra quelli che occorre inviare alla società. Se oggi Scicli può vantare l’eccellenza dei suoi Istituti Scolastici, vuol dire che è stato fatto un ottimo lavoro. Anzi, si sta facendo un ottimo lavoro, e ciò va assolutamente riconosciuto! Finiti i dovuti complimenti, ancora una volta allo scopo di porre nel giusto rilievo la lodevole iniziativa, riporto di seguito quelli che sono stati – più o meno – i miei pensieri, le riflessioni, intorno al libro “Maffia e Delinquenza in Sicilia”, di Giuseppe De Felice Giuffrida, di cui curatore è il prof. Mangiameli. Proprio tale saggio fornisce lo spunto alle riflessioni che umilmente trascrivo su queste pagine. Per quanto il dialogo che si è venuto a generare all’interno della mattinata di discussione è stato condotto più su un piano di spontaneità e coinvolgimento generale, così come lo spirito dell’iniziativa richiedeva. Nella ristrettezza e nei limiti delle mie capacità, così ho pensato:
Il professore Rosario Mangiameli, nella sua introduzione al testo di De Felice Giuffrida, richiama giustamente le essenziali polemiche sollevate dai sicilianisti in seguito alla pubblicazione della famosa inchiesta Sonnino-Franchetti. Essenziali in quanto da esse partono le prime esigenze di studi scientifici sulle dinamiche della delinquenza organizzata; scientificità richiesta sin dalla ricerca sulle etimologie dei termini. Lo stesso titolo del saggio “Maffia e delinquenza in Sicilia”, pubblicato nel gennaio del 1900, sembra prendere direttamente le distanze da quelle che erano state le affermazioni precedenti dello studioso etno-antropologo Pitré, risalenti almeno a dieci anni prima:
“La voce mafia (con una e non già con due effe come si scrive fuori Sicilia)” e poi ancora subito dopo nello stesso scritto “Se mafia derivi o abbia parentela col toscano maffia miseria, non mi preme di vedere qui.”
Eppure, tra le visioni sicilianiste di Pitré – o di Capuana – e quelle di De Felice, vi sono alcuni punti in comune, primo tra tutti il ridimensionamento del problema mafia, quale criticità non totalizzante nel contesto sociale siciliano dell’epoca. È diverso probabilmente il senso che De Felice assegna a tale sminuire, ma i dati su ordine pubblico e bassa percentuale di delinquenza sono comuni su entrambi i lati della barricata. Si trovano sul testo di De Felice, quanto in saggi più letterari, quale “L’isola del sole” di Capuana, per fare un esempio. Occorre precisare che De Felice Giuffrida si muove per operare una distinzione tra mera delinquenza e fenomeno mafioso. Invece Pitré e Capuana si cimentano nel non lodevole tentativo di riabilitare presunti antichi eroi mafiosi, innalzando ad un livello culturale più elevato le antiche prerogative nobili – a loro avviso – dell’esser mafioso. Fenomeno che non si può dire sia scomparso del tutto, neanche oggidì.
Non si deve confondere il lettore quando rinviene un messaggio che potrebbe apparire dello stesso colore, all’interno del saggio di De Felice Giuffrida: “Del resto, questi cavalieri della maffia si battono non solo coraggiosamente, ma cavallerescamente.” Il cenno ricorda ancora una volta gli studi sicilianisti di cui prima, ma colgo – se possibile – una certa ironia del politico catanese. Non so se anche “stima del nemico”(?). Chi conosce bene la mafia, da siciliano, ne parla con compiutezza. Forse fu questo che Giorgio Bocca non comprese, quando con amarezza, in qualche modo, tacciò Leonardo Sciascia di apologismo.
Tornando alle etimologie, non lo credo affatto impossibile che il De Felice Giuffrida abbia volutamente forzato le “effe”, ancora dieci anni dopo, per suffragare la sua teoria, tra l’altro positivamente più che esatta, e più volte espressa chiaramente nel testo: “Prima di parlare della maffia e della delinquenza in Sicilia, è necessario esaminare brevemente le condizioni nelle quali vive il contadino siciliano.” E più avanti: “E la miseria sociale, della quale io parlo, non è la vecchia povertà dell’individuo… ma è tutto quell’insieme d’incertezze quotidiane, di bisogni insoddisfatti, di privazioni inaudite, di crisi fisiologiche, di catastrofi economiche, di abbandoni morali, prodotti da uno stato sociale che non ha più nulla dell’antica forma economica, in cui gli scarsi bisogni di una società poco progredita erano facilmente appagati dal beneficio di scarsi concorrenti; e non ha ancora nulla della nuova forma sociale, nella quale una organizzazione tutt’affatto moderna, lontana dallo sfruttamento individuale, dia la possibilità a tutti di soddisfare i nuovi bisogni, mediante una potente forma collettiva di produzione dalla quale ciascuno possa ritrarre tutto il frutto del suo lavoro.”
Viene quasi anticipata la soluzione possibile: la medicina utile in funzione della guarigione. Rilevata subito nell’introduzione di Mangiameli, che la qualifica come “aspetto originale”, persino rispetto all’intellettualismo di sinistra dell’epoca. Mi pare di capire che il De Felice cerchi di delineare la situazione del suo tempo come se fosse di transizione, tra la fase feudale e quella capitalista. Nell’ultimo importante capitolo del saggio, tale concetto si fa rappresentare dal tipico evoluzionismo socialista. Visti gli esiti, in modo del tutto anacronistico, oggi potremmo dire che l’idea era affrontata con troppo ottimismo. Riporto: “A me sembra che la presente forma acuta della malattia sociale che si chiama maffia sia un avviso salutare.”, scrive il politico. E sembra di leggere Marx quando saluta il capitalismo come un bene, da incentivare persino, al fine di giungere il più celermente possibile allo stato di fatto socialista, o al momento in cui – come scrive lo stesso De Felice Giuffrida – la “riunione di tutte le forze individuali” troverà “una forza collettiva maggiore della somma delle forze associate.” Il punto della questione ora appare questo: il superamento di questa fase di mezzo non è ancora giunto, dovrà giungere, dovremo ancora impegnarci per che si possano generare le possibilità dell’avvento di un tempo di solidarietà? Oppure dovremo considerare superata la visione, tra l’altro – occorre dirlo – viziata da alcune ingenuità, come spesso ricorda lo stesso Mangiameli? La miseria, economica e morale, ideologica, è terreno fertile per le proliferazioni mafiose, ma basta guardare con fiducia alla naturale evoluzione sociale, oppure occorre fare altro?
Il professore Mangiameli, ancora nella sua introduzione, così scrive: “Perlopiù la comunicazione aveva un andamento verticale, cioè si muoveva dalle periferie al centro, verso Roma, per comprensibili motivi burocratico-istituzionali”. Oggi noi viviamo la schizofrenica fase, perlomeno limitatamente alla regione Sicilia, di una informazione reticolare che si muove in tutte le direzione, persino in regime di contemporaneità (mi riferisco a internet), di fronte ad una situazione viaria-stradale di poco migliorata rispetto gli anni di De Felice. In quale modo si stanno rapportando a tutto ciò i gruppi delinquenziali organizzati? Ma quest’ultima domanda appare senz’altro retorica.
Gaetano Celestre