Durante la notte del primo ottobre 1862, quasi allo stesso orario, tredici persone sono fatte oggetto di accoltellamento da parte di un’anomala setta dei pugnalatori. Il tutto in tredici punti diversi di Palermo. Le modalità simboliche dei delitti – ma sarebbe meglio considerare il fatto unitariamente  e parlare di “delitto” –  hanno condotto, qualche autore troppo immaginoso, a fare raffronti con il modus operandi di quella famosa setta sciita conosciuta sotto l’ormai abusato nome degli Assassini. Malgrado le fantasie da videogames, in effetti c’è un rapporto che lega le due sette ed è in verità riscontrabile nella volontà di destabilizzazione sociale, tra le intenzioni di uno sconosciuto mandante esterno alla congrega stessa. Quale identità si celava dietro i pugnalatori di Palermo, non è dato saperlo per via giudiziaria, ma leggendo e rileggendo ciò che ne scriveva Leonardo Sciascia (I Pugnalatori, Adelphi), non si può che restare assolutamente certi dell’identità del mandante. Metodo d’indagine è quello utilizzato dal lettore per la ricerca dell’assassino in Todo Modo. E anche questa volta non ne leggeremo mai il nome scritto chiaramente su carta, bensì molto più indelebilmente sarà deducibile dai fatti.

Non c’è un complotto templare dietro ma, con le dovute cautele, si può dire che poco ci manchi. E questo farà piacere a qualche appassionato di Assassin’s Creed. Tra i tanti personaggi che compongono il colpevole societario (oltre il notevole principe di Sant’Elia), Sciascia ne ricorda uno in particolare – solo a fine libro – e ne traccia un ritratto quasi da manovratore (puparo), o per meglio dire “diretto institore” dei mandanti più nascosti. Si tratta di don Giuseppe Carnemolla, arciprete di Scicli e membro di quell’entourage di preti e uomini da far paura “assai invecchiati nel sospetto e nella malizia”:

“Il Carnemolla”, riferisce Raeli (Ministro di Grazia e Giustizia e Culti del Regno d’Italia nel Governo Lanza) a Celestino Bianchi, “fu scelto per la Sicilia perché essendo del partito liberale ultra, ma fiero autonomista, e trovandosi a Roma per i suoi affari privati prima degli avvenimenti politici accaduti (cioè prima degli avvenimenti del ’60), la sua gita in Sicilia non dava sospetti. Ed a tal uopo si fa marcare che detto Carnemolla, per le immense conoscenze che aveva in Roma con alcuni del partito italiano (i quali ignorano la sua missione e la sua conversione al partito di Re Francesco), ottenne per mezzo degli stessi una lettera ufficiale del console italiano a Roma, onde essere garantito e non molestato in Napoli e Palermo durante il suo viaggio. Detta lettera porta la data del 14 gennaio, e il giorno 16 Carnemolla partì per Napoli e da lì per Palermo.”

Sciascia così continua:

Dalla relazione del Raeli… …si vede che l’incarico conferito al Carnemolla comportava una parte generica, da assolvere discrezionalmente e plenipotenziariamente (…gli si dava facoltà di adescare con l’oro o con promessa d’impieghi i capi-squadra del 1848, di stabilire dei Clubs e dei Comitati tanto in Palermo che altrove, di chiamare in Palermo dalle province quelle persone, a lui note come fedeli alla causa, della cui opera poteva aver bisogno), e una parte da assolvere secondo precise direttive del Comitato. E tra queste, primamente, era quella di un incontro col principe di Sant’Elia. Riferisce il Raeli: “Carnemolla sin da Roma aveva aperto delle pratiche in Sicilia con un certo avvocato di lui congiunto, e che questo tale è l’anima movente del principe Sant’Elia di Palermo…

E a questo punto sarei curioso di conoscere la storia liberale estrema di questo autonomista sciclitano. Come curioso sarei di sapere con precisione quali contropartite furono offerte al prezzo di una così inaspettata conversione politica. Ma soprattutto vorrei conoscere il nome dell’avvocato congiunto del Carnemolla e le personalità di coloro che furono contattati nelle province. Quanti saranno stati gli sciclitani? Approfondiamo ancora sulle parole di Sciascia, al fine di saperne un po’ di più, a proposito del Carnemolla:

Egli si era trovato a Roma, mentre Garibaldi conquistava la Sicilia, per affari privati: che consistevano nel fatto che nominato arciprete di Scicli nel 1845 (secondo altro cronista sciclitano nel 1846), era stato deposto nel 1859. Poiché aveva impugnato il provvedimento di destituzione, e a decidere sarebbe stata la Santa Sede, se ne era andato a Roma per da vicino seguire la sorte del suo ricorso: e tornava a Scicli, dopo più di un anno, che la decisione era stata presa in favore suo. E vien facile il sospetto che quella decisione (propriamente di favore, se il cronista di Scicli, che essendo canonico se ne intendeva, dice che la sua nomina ad arciprete era stata un abuso del vescovo di Siracusa) l’avesse ottenuta a premio della sua conversione politica.

Per capire di quale abuso si trattasse, non v’è bisogno di costruire troppe macchinazioni, basta andare ad interpellare per l’appunto la fonte di Sciascia, il canonico Giovanni Pacetto (contemporaneo agli avvenimenti in questione):

Nell’anno 1833 succedeva a don Francesco di Paola Lupo, Il Dottor Don Luigi Lutri, Preposito della Collegiata di San Bartolomeo, il quale fu istituito Arciprete con Privilegio Vescovile da Monsignor Amorelli, nulla curando il Concordato del 1818 dove espressamente si disse che restavano riserbate alla Santa Sede, tutte le prime Dignità di qualunque Collegiata. Moriva il 29 Aprile 1845 e le succedeva l’ex Frate Domenicano Don Giuseppe Carnimolla, il quale scrivea il suo Concorso in Noto, nell’ottobre del 1845 sotto la presidenza del primo Vescovo di quella Città Monsignor Don Giuseppe Menditto, che seguendo lo abuso del Vescovo Amorelli, lo istituì Arciprete con Vescovile Privilegio. Però tale abuso conosciuto dalla Santa Sede, e dal Governo del Re Ferdinando II; costui con suo Decreto destituiva il Carnimolla dal Parrocato…

Poi il Pacetto più non parla, neanche del ritorno vittorioso del Carnemolla. Alcune considerazioni possono essere fatte. La principale, in merito alle contropartite per il cambio di casacca, mi sembra così lampante nella sua risoluzione che non abbisogna di ulteriori spiegazioni. Notazioni a carattere meramente di curiosità invece me ne fa sorgere questo continuato trascinarsi del vizio di incompetenza, dalla sede vescovile siracusana a quella netina. Per il primo Vescovo della sede di Noto, Menditto, certamente non è stato il miglior modo di iniziare, ma di questo non si può far una colpa al Carnemolla e non rientrerebbe nel metodo d’indagine più realistico il cercare di indovinare un intento fraudolento in chi lo aveva proposto come Arciprete sciclitano (mi sto riferendo solo ’45, ché nel ’62 di truffaldinerie in atto non ne mancavano). Le lacune di conoscenza sulla persona di don Giuseppe Carnemolla sono molte. Probabilmente Leonardo Sciascia cercò di colmarle per mezzo delle note ricerche sciclitane (se ne ricorda una dagli esiti macchiettistici), ma quel che resta sono solo ipotesi. Carnemolla continuava una lunga tradizione di Arcipreti, forse non propriamente “buoni pastori delle proprie fedeli pecorelle”, ma dalle pronunciate ambizioni ad esser “pastori di popoli”, per dirla con Omero. Accorti, abili, politicamente impegnatissimi, degni successori di quel ben noto don Antonino Carioti, cultore delle memorie storiche sciclitane, a cavallo tra ‘600 e ‘700.

Gaetano Celestre