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Un nuovo racconto.

STORIA DI MARE D’AMORI E DI FECI

 

Jovem et Junonem et duodecim deos iratos habeat quisquis hic minxerit aut cacarit. Presso un corridoio che conduce alle terme di Traiano in Roma, sono dipinte a fresco due serpi (segnale della presenza di un genius loci) per l’appunto corredate da tale iscrizione in latino. Gli era rimasta impressa quella scritta, al giovane, una delle poche cose notevoli da ricordare della gita scolastica a Roma risalente all’anno precedente; tanto aveva catturato la sua attenzione da indurlo persino a sognarne, nel contesto di un più ampio e surreale cimento notturno visionario, occasione di una prova d’esame immaginaria, forse profetica, proiezione onirica di una possibile versione di latino: Si abbia lo sdegno di Giove e Giunone e dei dodici dèi chi qui piscerà o cacherà. 

Ed era un sogno ricorrente!
Magari qualche anno più tardi, quando le cose notevoli di Roma si sarebbero accresciute da sé, il giovane avrebbe approfondito sull’etimo, da Kakke, sterco in Greco antico, ma al momento era bastevole pensare a quei dodici Dèi incazzati, o alla moltitudine di santi discendente – fatta scendere, per la precisione – nell’istante della narrazione evidenziato, manifestazione teofanica concomitevole allo sgraziato incidente in cui era incorso il giovane ponendo il piede sulla spiaggia – per la prima volta in quell’anno, sul finire di Maggio – e imbrattatandolo improvvidamente di una merda non ancora troppo seccata dai raggi solari. Ecco come un momento importante, quasi inconsapevolmente religioso, era stato svilito dalla dura realtà dei fatti concreti. Forse, ragionandoci ancora un po’, anche uno solo di quei furibondi Dèi basterebbe e abbisognerebbe in paese, per scongiurare deiezioni pubbliche, sia fisiche che liquide. Le vie della città nel fine settimana sono ormai occasione di minzione diffusa per le tante entità terrene esistenti, spesso notturne presenze (egli stesso, il giovane, aveva dovuto servirsi più volte di quella cloaca pubblica, a cielo aperto, al fine di liberare la vescica rigonfia). Sui solidi, in genere, giravano storie, ma si lascerà propendere il lettore per la scelta più ovvia, quella che tra le bestie si convince di addossare responsabilità di qualche tipo all’accompagnatore umano. Certo, è chiaro, a meno che non si voglia pensare per forza a una situazione di copioso randagismo, di genere allargato intendo. Ma anche in questo ultimo caso, si finirà comunque per prediligere l’ipotesi dell’esecrabilità del randagismo umano, sempre a dover scegliere tra le bestie.

Oh, insomma, simili dilemmi del lessico e della retorica non toccavano ancora il giovane (che continueremo a chiamar tale, in barba a quanti vorrebbero approfondire maggiormente i caratteri, e quelli estetici e quelli psicologici), il quale andò presto a rinfrescarsi il piede in acqua, per la verità un po’ troppo fredda per la media stagionale, non prima comunque di essersi potuto accorgere che di feci era costellato l’arenile, come cielo che si illumina di notte, a puntini e fasce più espanse di chiarore. Il cielo stellato sopra di lui, la spiaggia smerdata sotto. Non restò altro che affrontare una lenta passeggiata sul bagnasciuga, evitando ulteriori eventuali contatti e contaminazioni. Il ragazzo, il giovane, per quel che può riguardare e se ne sa dell’approfondimento caratteriale contro-auspicato tra parentesi, poteva anche soffrire di una qualche forma di lieve ipocondria; quali remore attaccate sul fondo della chiglia, si possono in effetti generare le paure nei confronti di parassiti fungiformi in corso d’attecchimento silente sulle piante del piede. Ad apparizione avvenuta, poi, il danno risulterà pressoché irrimediabile, e dalla tragedia si giungerà all’accettazione supina: i piedi saranno amputati, pazienza! E forse, in merito, non del tutto adeguato era stato sfregare con insistenza il piede, la pianta, sulla abrasiva sabbia umida, che già sporca di suo doveva essere e l’acqua del mare non tanto più salubre si sarebbe rivelata ad una analisi batteriologica e fisica; ancora di più lo sfregamento doveva sicuramente aver provocato il passaggio di qualche spora dall’esterno all’interno, così non restava che contare sulle buone difese immunitarie di un fisico giovane, aitante e i capelli biondi. Chi ha i capelli biondi, conduce con sé quasi sempre gli occhi azzurri, e ben poco di rado una congenita atleticità del fisico, tutte queste condizioni  e circostanze che sortiscono l’effetto apotropaico di scongiurare infezioni e affezioni della cute, o perlomeno quelle che non siano di origine venerea. Ovviamente il lettore potrà anche pensare da sé, e giudicare, interpretare, ipotizzare, riguardo i gesti, come quello significativo di una mano passata con vigore tra i fulvi capelli filiformi, asciutti e nettati d’ogni impurità senza alcuna necessità di shampoo purificante, collegando il gesto all’atto del vedere un sacchettino contenente feci a mezzo metro d’acqua di profondità. Potrà costruire una propria analisi, così come si è tentato nell’incipit di questa storiella. Che cosa ci fa lì quel sacchetto? È probabile, si penserà agevolmente, che esso sia lì come conseguenza di qualche recente mareggiata, o forse ancor meglio di qualche movimento notturno delle maree (lode sempre venga resa all’ecatea luna, Dea Bianca, che ci sovrintende non solo negli umori), a giudicare dall’integrità del sacchetto. Ipotesi: l’onda, appropriatasi dell’involucro e del suo contenuto, l’avrà potuta trascinare con sé sul fondale, ma ancora a breve distanza dal bagnasciuga. Si potrà dedurre anche una certa calma del moto ondoso perdurante da qualche dì, ciò dalla trasparenza dei flutti, e ancora una volta dall’integrità del sacchetto, dunque affermando senza troppi margini di errore che l’occlusione plastica possa esser stata praticata in tempi recenti. Chissà quanti del resto portano i cani a cacare sulla spiaggia, più di inverno che d’estate, perlomeno lo si spera. Ma il ricordo di alcuni deambulanti mattutini e serali, osservati nell’atto dell’accompagnamento dei cani, riverbero di malinconie sommesse e risalenti alla passata stagione, smentisce immeditamente l’auspicio. È allora gioco forza credere che, essendo fissato intorno alle dodici l’orario di discesa in spiaggia, certamente tra quelli che mediamente attecchiscono di più nelle pratiche balneari delle generazioni più fresche, non abbia consentito in precedenza al giovane di godere della rivelazione mirifica di quella vasta consistenza fecale sulla sabbia, ignoranza da addebitare in causa a un probabile rimestamento della sabbia, osservabile forse nelle prime ore del mattino, tutto a danno dei più anziani, ché lo iodio fa bene e loro nelle prime ore vogliono e possono usufruirne. Sì, ovviamente, anche i bambini sono bene accetti tra la merda, meglio se neonati (portate i vostri bimbi in spiaggia quando non c’è troppo caldo, nella fascia oraria che va dalle 8:00 circa e le 10:30 ante meridiem circa), ché laddove meno c’è consapevolezza lì un risultato migliore si avrà in allegrezza. Forse quella mano tra i capelli è il gesto, commento, alla improvvisa rivelazione subita? Il giovane è stato dunque finalmente iniziato alla cacca? Lo speriamo, per la società intera e la civiltà occidentale tutta. Il ragazzo guardò al mare, lontano, come a cercare un elemento di purificazione totale. L’azzurro – è ben noto – tra i colori è quello che ha un maggior potere calmante. Il mare ci salva, e per fortuna che c’è. Il giovane era sceso in spiaggia alla buon’ora, come più non avrebbe fatto probabilmente nel corso del resto della stagione, semplicemente questa era la cagione della sua sconcia scoperta. Non aveva più interrogazioni da ossequiare, completato il quadrimestre aspettava l’esito di una probabile promozione senza infamia e senza gloria, in attesa di affrontare – dal settembre venturo – l’ultimo difficoltoso anno e gli esami di stato. Il tutto era vissuto con pochi ma comunque sussistenti patemi d’animo, anche a rasserenarsi su questo si serviva del mare. Data l’inclinazione ancora in parte primaverile del sole, i colori di mare e cielo si mantenevano su tonalità fortemente diverse. L’azzurro intenso del mare si contrapponeva a quello più fioco del cielo, una soffusa foschia diffusa lo pervadeva preannunziando le afe estive. Non lontano dal liminare orizzonte, un trapezio allungato, ben più chiaro di colore, evidenziava, disteso sullo specchio d’acqua, uno spazio di identico colore del cielo. Il fenomeno comportava l’interessante trascorrere di un paio di imbarcazioni, dai cui fumaioli si innalzava indolente un filo scuro che restava pressappoco orizzontalmente sospeso. Le navi sembravano aver trovato una nuova rotta in uno spazio di cielo ancora vergine. Ciò avveniva come se i capitani di quelle navi, vedendo il mare insicuro, presagendolo in un ritrarsi improvviso, avessero deciso coraggiosamente di spingere le prue più in alto. Una sensazione che provocò il sorriso del giovane, un sorriso di non-comprensione. Non sappiamo, tuttavia, se egli ebbe modo di credere o pensare che il mare – in tutta la sua magnanimità, per fortuna! – non arretra facilmente, semmai assorbe, o meglio cela le nostre nefandezze come fosse una coltre pietosa. Quella mano tra i capelli era il commento gestuale alla presa di coscienza, forse: il mare, che era tra gli enti del mondo il più sacro, toccato sì ampliamente dalla umana ingerenza, supera le nefandezze con slancio divino. Ma occorre comunque prendere consapevolezza del rispetto che gli è dovuto, questo il giovane con ogni buona possibilità lo aveva appena appreso, scontrandosi direttamente con la sconcezza e la bruttura nel bel circostante ameno. La decisione di impegnarsi per una società migliore, un intervento nella comunità e per la comunità, l’insieme che reagisce alle storture provocate dai pochi (sarà davvero così?) e poi bla bla bla bla è ancora bla bla di questo genere, basta che funzioni.

Era una bella trovata quella del patruni o luogu: lo Scamandro che si ribella ad Achille, poiché l’eroe di morti a iosa ne aveva insozzato i flutti con sin troppa liberalità; Artemide che puniva aspramente i tagliatori di alberi nel bosco sacro, le recriminazioni indignate e furenti di Posidone avverso chi non aveva rispetto del Mare, fungevano in passato da parametro per le piccole azioni coscienti o meno degli uomini. La paura, quando non bastava il rispetto nei confronti dell’ipostasi, impediva probabilmente di esagerare nel maltrattamento del circostante ambientale. E oggi di chi abbiamo paura? È probabile che il nostro terrore sia di tipo finanziario, o di noi stessi reconditamente e forse addirittura celatamente, ossia nel silenzio fatto subire alla coscienza. Del resto non abbiamo più rispetto neanche di quel sacro momento di espulsione delle feci; sì scorie sono, ma sempre di noi. Purgati elementi di una assimilazione biologica avvenuta precedentemente, probabili membra di nuove entità, humus di vita futura. Bisognerebbe congedarsi dalle nostre deiezioni nel dovuto rispetto, e con serie o facete riflessioni contingenti al momento dell’emissione. Catarsi nella catarsi, ciò dovrebbe o potrebbe generare poesia, che è proprio quanto manca al nostro tempo. La poesia del “frattempo”.

Troppe valutazioni morali e psicologiche in un colpo solo, proprio il contrario di ciò che si sperava. Del resto non è neanche giusto, nei confronti del giovane, di cui non conosciamo precisamente i pensieri. Che abbia potuto provar piacere da quel pestare merda?, chi lo sa!? Perché negarlo a priori? In ogni caso il giovane non sappiamo se è colto dallo stesso dubbio del narratore: non sarebbe meglio a questo punto lasciar le feci libere dalla plastica (libere come le pisciate di uomini e cani, ad ogni cantunera dell’ormai mefitico paese),consentendo a tali esiliate verità biologiche quelle agevolazioni auspicabili del trasformarsi ed integrarsi nel tutto ambientale? Magari, ancora magari!, il giovane è più informato del narratore, e sa ad esempio che il sacchetto è biodegradabile, dunque non costa pena il troppo rimuginare sulle conseguenze della plastica rilasciata incautamente. Egli, nel caso, avrebbe comunque sottovalutato il dovere di far sbrigare il prima possibile la trasformazione delle feci in humus, pratica dovuta in onore alle esigenze dell’olfatto, anzitutto, e poi alla razionalità e al dubbio riguardo la biodegradabilità.
In ogni caso, il giovane, potrebbe anche farsi supportare da una opposizione dialettica del tutto legittima e razionale: “Io non vorrei essere ingiusto”, potrebbe esordire “ con la gente di questo paese in cui vivo da alcuni anni, ma mi sembra che sia tipico della poca virtù delle popolazioni italiane non peccare per paura di qualche idolo, per quanto lo chiamino col nome di un santo. Hanno più paura di san Sebastiano o sant’Antonio che di Cristo. Se uno vuol conservare pulito un posto, qui, perché non ci si pisci, come fanno gli italiani alla maniera dei cani, ci dipingi sopra un’immagine di sant’Antonio con la punta di legno, e questa scaccerà quelli che stan per pisciare. Così gli italiani, e per opera dei loro predicatori, rischiano di tornare alle antiche superstizioni e non credono più alla resurrezione della carne, hanno solo una gran paura delle ferite corporali e delle disgrazie, e perciò han più paura di sant’Antonio che di Cristo.”

E da un simile discorso che io, come narratore, prendo coscienza di un possibile ripensamento. Ne dedurremmo comunque, da questa lieta riflessione del giovane, che egli potrebbe essere straniero d’origine, forse un nuovo residente, un foresto come si dice, particolarmente religioso e ferrato in materia di cacca. Questo smentirebbe persino la mia ipotesi sulla sua presuntiva superficialità manifestata in occasione della gita liceale a Roma. Mah, che ne saprò poi, io, di quel che un liceale ricorda di una gita a Roma? In realtà, giunto a questo punto, potrei smentire tutto e chiarire gli artifici della narrazione per cui ho potuto descrivere il sogno ricorrente e la scatenante gita liceale capitolina, sennonché devo rivelare che le mie affermazioni iniziali saranno suffragate da quanto sta per dire il giovane stesso, da qui a qualche riga. Per la verità ritengo che, se non dovessimo fare affidamento su tali deduzioni, finiremmo per addentrarci troppo in una nuova riflessione ben più complessa, andando a parare in quelle argomentazioni che Isidoro da Siviglia descrive sinteticamente come finzioni, o perlomeno in ciò che riguarda le finzioni delle finzioni: “fabulae poetae a fando nominaverunt quia non sunt res factae sed tantum loquaendo fictae …”.

E così, completate le citazioni trendy – ben due – dal più noto tra i testi di Eco, e rinnovata la fiducia- quasi interamente – nella verità dei fatti sin qui narrati, immagineremo il ragazzo seguace della nuova ecclesia di Francesco, fondata sul virile impegno di carità individuale, e neofita della lettura di qualità improvvisamente acceduta al rango dei fenomeni di tendenza in seguito a decesso dell’autore medesimo (nel caso specifico, una riedizione modaiola ma comunque positiva). Mi sembra ovvio, senza alcuna necessità di profuse spiegazioni, io le riporto le citazioni, ma è il giovane che le ha fresche in memoria. In altre parole, assodato che il giovane è un ragazzo nella norma, banale, solo un tantino più avvenente fisicamente di tanti altri, potremo seguirlo nella sua passeggiata fino allo strano incontro con una signora, non troppo attempata, ma piacente ancora (quella che in gergo, anch’esso modaiolo, si è ormai usi definire con l’acronimo milf).

Di persona era tanto ben formata,
quanto me’ finger san pittori industri;
con bionda chioma lunga ed annodata:
oro non è che più risplenda e lustri.

Questa era troppo triste in volto perché il ragazzo potesse disinteressarsene, e la mestizia fungeva da occasione per una più approfondita valutazione estetica. Il giovane colse, dal luccichio sotto le palpebre, la possibilità di una lacrimazione in corso. Ad uno sguardo più attento le lacrime grondavano, in effetti, come alimentando l’acqua salsa del mare. Da lì la signora prese lentamente ad allontanarsi, seguendo una secca oltrepassò uno scoglio appuntito, un pizzo rasente l’acqua, giunse ad una misconosciuta caletta, al di là del promontorio veramente modesto originato per l’appunto da quel pizzo in ascesa graduale dalla fondazione marina, elemento costiero e roccioso di separazione dalla spiaggia principale. Il tragitto avveniva senza grossi intoppi e sofferenze, non costringendo neanche l’ombelico a bagnarsi, complice l’assenza di vento e di onde. Lo spazio trapezoidale nel frattempo era sempre lì, immobile, e le navi adesso mostravano la poppa. Il filo di fumo, immobile a mezz’aria, disegnava una retta realizzata da mano malferma, romanticamente sfumava nei cerulei contorni. Il giovane seguì la signora sino a dove ella aveva deciso di posarsi, su di uno scoglio piatto, emergente a cavallo tra la sabbia dorata e l’onda corta e vitrea che si forma sull’ultimo dosso sottomarino prima della ambita riva. A distanza ravvicinata il volto della signora apparve solcato da qualche ruga, e una smorfia di sofferenza emotiva contorceva il labbro lasciando scorgere le imprecisioni della dentatura. Una bella donna comunque, ma non così come era apparsa di primo acchito. Non era roba per il giovane, che pur mosso da curiosità, dimentico del mare e della decisione di impegnarsi ecologicamente, si decise a far passo ulteriore, approssimandosi per chieder conto delle copiose lacrime. La donna parlava a mezza voce tra sé, torcendosi anche le mani; così si lamentava:
Tu non sei né gentil né cavalliero, e così come ben m’appongo al vero, ti vedessi punir di degna morte; che fossi fatto in quarti, arso o impiccato, brutto ladro, villan, superbo, ingrato.”
Spiegò poi i motivi del suo aspro malanimo: ella era stata per lungo tempo maliarda e affascinatrice di uomini, molti ne aveva avvinti con le armi della seduzione e con l’inganno del make-up, tutti li concupiva per poi abbandonarli disperati come bestie. Ma infine gli era capitata ventura, ai tempi in cui Berta filava, d’incontrare un tale di cui si era innamorata con sincerità. Subito i due si erano legati appassionatamente, fin quando un giorno le malelingue non erano intervenute ad interrompere il loro idillio d’amore, e in gran parte erano tutte nefaste promanazioni dell’invidia di una sorella, zitellona e frigida. Così il suo uomo era stato informato delle precedenti esperienze di lei, delle tante chiacchierate storie che la riguardavano. A farla breve ella era stata infine abbandonata, vittima beffata da una ingannevole e ingiuriosa fuga, per giunta. Allora
fu, vinta dal dolor, per restar morta.
Squarciossi i panni e si percosse il viso,
e sciocca nominossi e malaccorta.
Dai segni della accorata disperazione il lettore potrà dedurne facilmente una reale sofferenza, nonché l’assoluta redenzione che l’amore vero aveva operato su quella lussuriosa maiara, e potrà comprendere perché essa stessa da allora non avesse più smesso di andare in giro alla ricerca del suo amato, piangendo sulla sabbia di tutte le spiagge.
Il giovane si impietosì, e dunque mosso a compassione offrì il suo aiuto alla donna. Non sappiamo, poiché questa è storia reale, quali intenzioni celasse e se ve ne fossero, oppure se la donna le condividesse o meno. Nulla sappiamo, solo il mare irrazionale sembrava certezza in quell’attimo, ma anche su questo prima poi dovremo ricrederci. Ella smise di piangere, gradualmente, e le si rischiarò il volto, mentre spariva sull’orizzonte quella striscia di cielo più chiara che per qualche ora si era adagiata sul mare. La cosa strana, occorre precisarla al lettore, è che si era potuto credere, o pensare, a un arretramento da tergo, mentre invece ora, d’un tratto, la novità consisteva in una apparenza del tutto inaspettata, sembrava quasi che la ritrazione si fosse verificata (meglio si sarebbe dovuta esprimere la sensazione con “si stesse verificando” per dare un senso di continuità all’operazione in corso) partendo dalla riva, come se la coperta venisse da qualcuno gradualmente tirata a sé, da qualcuno che stava dietro le montagne di Libia e di Mauritania, dietro l’orizzonte.

Gaetano Celestre