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Si tratta di una sorta di laico pellegrinaggio, ma non posso nascondere che vi sia da parte mia una sorta di attesa d’altro, non di religioso ma perlomeno di funzionale all’ascesi mistica; questo cerco nell’ossequio dei miei rituali. Tra tali pratiche ripetitive, il caffè al Bar dello Studente di Bitonto (quest’anno un po’ bruciato), e la visita all’antica cattedrale. Mi sono dunque incamminato, affianco a mio padre che quasi atteggiavo a un Virgilio, entrambi pressoché in silenzio, intenti ad osservare, suggendo, anzi inalando, la balcanica aria pregna di sansa tipica del Barese, ascoltavamo lo strano dialetto del luogo, che sembra un po’ francese, un po’ napoletano, un po’ inglese e chissà che altro, muovendo verso la Porta Baresana, subito dopo aver consumato il già menzionato caffè. Per una serie di contingenze familiari mio padre mi ha presto abbandonato sulla strada, già prima di scorgere il monumento a Traetta in piazza Aldo Moro, ma non mi sono lasciato intimorire dai possibili incontri con gli eventuali malintenzionati di Bitonto vecchia, e così piuttosto che dirigermi verso l’entrata trionfale dalla porta Baresana, ho preferito tergiversare e allungare il percorso iniziatico che conduce per l’appunto alla Cattedrale.

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Una breve attesa di preparazione, aggirando il circolare torrione angioino, che da sempre mi intimorisce per il ricordo di quei Vespri di cui sono incautamente e involutamente rappresentante, sortisce l’effetto di aprirmi un varco naturale dalle scalinate a lato del Nobile Teatro. Indi, seguendo il passo di due signore attempate cariche di pinguedine e di buste con la spesa, ho intrapreso il viaggio all’interno dell’area medievale. Giungevo in tal modo, rassicurato dall’indolente incedere delle rubiconde massaie, dianzi al sagrato di San Francesco della Scarpa; sotto i miei piedi immagino ancora tiepide le rovine del tempio che fu consacrato a Minerva.

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La facciata è austera, misteriosa nella sua semplicità, lo stile tardo-romanico già prelude agli slanci pinnacolari. Di lato, un forno duecentesco, teatro di certe mie untuose scorribande negli anni passati. Buonissima la focaccia pugliese, quasi una spugna pregna di succo d’oliva, da mangiare in fretta prima che sovvenga il nervosismo in causa alle macchie sul giubbotto, o ai pezzettini di pomodoro che rovinano sulle scarpe. Cosa si farà delle dita? Chi sarà il fortunato a volerci stringere la mano, nel corso della passeggiata? Per fortuna loro, qui non conosco nessuno. Mentre divago, pensando magari a chi tra gli sciclitani vorrei stringere la mano per “ingrassargliela”, lo scenario attorno cambia repentino, tutto diviene più ombroso, e angusto.

imageSu strette vie, sconosciute, proseguo un cammino di ricerca probabilmente approssimandomi ad una perfezione ideale. In realtà la scelta era stata ponderata, le conseguenze per nulla. Le signore svanite nel nulla mi avevano in pochi attimi costretto a fondare riflessioni sul personale senso d’orientamento. L’impianto medievale dei vicoli tortuosi, la pietra nuda e grigia, inumidita dai secoli, cela maestosi scorci di palazzi cinquecenteschi, strani figuri monumentali, come geni del luogo (simili a quello “colto”, mago della conoscenza forse?, che vedrò incorniciato da due colonne sopra il rosone della Cattedrale di Ruvo, appena il giorno dopo), guardano con occhi vuoti e di parole mute riempiono i presentimenti di possibili pericoli. Dietro gli archi si aprono corti che non posso visitare, crocicchi di giovani farfarelli presidiano i luoghi, essi osservano incuriositi il mio girovagare incauto. Accelero il passo vedendo una luminosità maggiore in lontananza di una più lunga e dritta stradina. È il presentimento della perfetta Cattedrale di Bitonto, idea che si realizza quando sbuco su piazza dei Masculi e ancora una volta mi stupisco per quel che vedo.

imageIl lato meridionale della fabbrica medievale (lo stile è il romanico pugliese, che qui a Bitonto raggiunge il suo apice assoluto), lascia incombere sulla mia meschinità gli occhi vuoti, eterni, di bestie straordinarie, omuncoli disperati, mostruosità circostanziate da forme vegetali rigogliose nei ghirigori della pietra bianca. Si tratta di una gioia incommensurabile, ne vengo pervaso e abbasso il capo umilmente fino alla porta laterale; troneggia su di questa un crocifisso in abito regale. Niente di religioso colgo, ma del potente uomo costruttore vedo i segni. La stessa divinità cristiana, qui, si trasfigura già sulla croce come fosse venuta in gloria. Onore e gloria ai muratori fratelli, della libertà portatori coi sogni.

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Bisognerebbe ripristinare il senso ancestrale del segno della croce, come augurio di incontro tra cielo e terra: semina, pioggia, fioritura. Torno consapevole a contemplare i volti scolpiti sul loggiato, una per una ogni forma richiede l’opportuna attenzione. E così piano piano, con lentezza mi sposto sino alla maestra facciata principale, a salutare i leoni con riverenza, prima di fare ingresso nel tempio.

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I volti ieratici delle forme scolpite, e di quelle dipinte, ancora una volta mi costringono alla panica considerazione dell’immutabile circolarità, questa come residua speranza cui appigliarsi nella speranza dell’Insperabile. Saluto sua maestà Federico II, il siciliano, seduto sul fianco della scalinata al pulpito. E gli rivolgo il mio pensiero e la mia ultima preghiera, a lui che era Cacciatore di quaglie e di fagiani, perché scacci via le mosche che mi non mi fanno dormire, mi fanno arrabbiare. Compiuta la visita, torno alla società, questa volta attraversando la porta Baresana, ossia uscendo dalla città antica.

Gaetano Celestre

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