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“Coi piè ristretti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran variazion d’i freschi mai”

È il Canto XXVIII del Purgatorio; sulle soglie del paradiso terrestre Dante incontra Matelda, ipostasi della originaria, ingenua, umanità arcadica. Gli ultimi cinque canti del Purgatorio si realizzano nella visione edenica, in tutta l’amena mollezza e piacevolezza primaverile (l’esistente circostante come giardino, locus amoenus), dunque qualche attimo prima del passaggio al vero e proprio percorso superiore, l’ultimo a rigor di logica (Logos talvolta inventato), in compagnia di Beatrice. La distinzione tra i due paradisi, se mi è possibile pensarla, è da rinvenire tutta nel senso di responsabilità da acquisire progressivamente, di pari passo all’ambizione di conoscenza, evidentemente necessari parametri per una proficua ascensione al “paradiso non-terrestre”. In altri termini, hai voluto la mela?, ti è piaciuto mostrare accecata lo monocola visione dell’esistente naturale?, e allora caro Odisseo, Adamo, uomo che tu voglia farti chiamare, adesso dovrai continuare il tuo viaggio sino alla fine, il fine!, ossia la consapevolezza. Lì solamente potrai piantare il Remo e finalmente sedare i principi celesti da te stesso generati e posti in contraddizione. Sarà così? E se fosse solo il primo giro di una infinita spirale? Se fa paura la non esistenza del “lieto fine”, occorre trincerarsi dietro la possibile non esistenza di alcuna fine.

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Del resto, è probabile che uno stato arcadico vero e proprio non sia mai esistito, se non come base di ragionamento, artificio di partenza, stato di quiete iniziale. Semplifichiamo: è il sogno di molti, nei momenti più complicati della vita, sentendosi impelagati nelle correnti e nei vortici dei tecnicismi burocratici, quelli delle faccende quotidiane, pensare il ritorno a una esistenza deresponsabilizzata, primitiva e felice, da raccoglitore di frutti, o al limite da capraio solitario e con un occhio solo. Alla lunga è una vita noiosa, ma pacifica, perché il contro sono le infinite odissee, o peggio ancora le guerre inspiegabili, i tradimenti, i cavalli di legno, il potere annichilente. Ma è un sogno, o è davvero possibile immaginare che sia esistita una tale condizione edenica, precedente alla nascita di ogni ambizione conoscitiva? Ciò che è pensabile non sempre è esistente (per quel che se ne può capire dell’esistenza e per quanto poco ce ne possa realmente fregare qualcosa) o perlomeno non sempre è presente nelle forme estetiche esterne al pensiero medesimo. Tornare indietro, cioè la reazione politica, è il grave errore dell’umanità. Quando il giorno non piace, si sogna la notte a venire come fosse una antica notte assai precedente, una notte luminosa quasi come fosse giorno, una notte mitizzata. Esistita? Si dovrebbe cercare di risolvere i problemi del giorno, questo vien da pensare, e – ormai che ci siamo – procedere nel sentiero di conoscenza.

In ogni caso, al netto dei conservatorismi, convengo sia utile crearsi un giardino personale, un locus amoenus come rifugio di salvezza dalla cretinità, o un luogo ristretto dove esprimere lietamente la personale individuale stoltezza. Non per forza un luogo fisico, ma anche mentale, come il mondo delle idee, ad esempio. Se poi il luogo immaginato coincide talvolta con quel che è possibile sentire, cioè elaborare per il tramite dei sensi, capiterà certamente di condividere lo stupore di Dante, il quale indugia ad abbracciare il suo sogno irresponsabile, bellissimo come Matelda (che è discinta, peccaminosa e attraente nella sua ingenuità fresca, molto più di Beatrice la santa), così si resterà fermi al di là del fiume a rimirare i fiori di Maggio. Passiamu, va …

Breve Postilla: se Scicli è mai stata un locus amoenus, prima che subentrasse lo smoderato interesse per lo sviluppo turistico? È probabile di no, perché il passato più recente profuma ancora di cemento fresco, e quello più retorico, remoto – vittoriniano – parla da un sogno ai dormienti, come i mai gustati pastizzi della trisavola. Se potrà diventare gradevole Scicli, in futuro? Sono scettico anche su questo, ma non è razionale impedirne l’auspicio, la potenzialità. Ciò, malgrado i nuovi aromi già fanno capolino, e sono quelli nauseanti delle immonde scorie nostre, ancora lontane dall’essere prese in carico da una coscienza conoscente e responsabile.

Gaetano Celestre