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Vado per boschi, in autunno. Forse fa parte del mio graduale modo di riavvicinarmi alla città dopo la fuga estiva, quasi un girarvi attorno in effetti. Cerco, da ignavo qual sono, di tardare fin che posso l’impatto doloroso. Questa mia repulsione, che sia chiaro, nessuno la addebiti all’oggetto in se stesso. Non ho problemi con l’idea della urbanità, e della vita civile. Anzi, tutt’altro! Sono orgogliosamente figlio del Novecento, e ho subito (forse anche piacevolmente) l’indottrinamento ideologico che lo permeava da ogni lato, giungendo sino al radicalismo di cui mi persuado oggi. Mi perdoni il lettore se sto concentrando così tanto su me stesso, il tema iniziale di questa passeggiata. Il fatto è che mi ritengo estremamente politicizzato; cioè – in termini romanzeschi – mi entusiasma il fatuo orgoglio di Hans Castorp che discende dalla Montagna Incantata per impegnarsi nelle battaglie della vita; mi appassiona l’idea della Città, e delle relazioni, del relazionarsi per essere precisi; credo, come fosse il mio vangelo, nel senso della vita come vaga percezione di strutture e sovrastrutture; credo nel farsi della vita, anche solo come sogno, eppur idillio onirico veritiero in virtù di un ideale reticolo di connessioni; infine mi fido dell’ipotesi che la Città possa essere il nodo centrale di questo relazionarsi social-contrattuale.

Tuttavia, non vedo nulla di tutto questo, a Scicli, e sarà sicuramente così anche altrove. Non scorgo neanche i presupposti di una possibile consapevolezza civica, al momento. Qualcuno vorrà dirmi (potrebbe farlo) che la colpa è mia, che non mi impegno abbastanza, o lo faccio male, etc, etc … Ebbene, in verità devo confidare a me stesso che è vero. Non mi importa granché, ed è così che aspetto, serenamente. O per meglio dire, serenamente eludendo quella che mi rappresento come una dura realtà da non preferire. Preferisco restare sulla Montagna, e girar per boschi. Il crepitio del fogliame secco, d’autunno, mi riconduce ai ricordi. Ricordi indefiniti, quasi impalpabili, di stagioni precedenti. Di piacevoli umori e aromi di inizio inverno. Penso e ripenso ad altre precedenti passeggiate. Si tratta di intime ricordanze, le quali non necessitano di essere qui ritratte. La domanda che però mi assilla, e di cui voglio accennare, è questa: cosa ricordo, in realtà? Ossia, ciò che costituisce la materia sostanziale dei miei ricordi, è la verità dei fatti accaduti, o il ripetersi abituale del racconto che ne faccio a me stesso? Mi accorgo che i ricordi, nel corso degli ultimi anni, vanno accrescendosi via via di particolari. È un campanello di allarme, accidenti! Non potrebbe essere che i ricordi, così come sorgono e risalgono dal piede che calpesta la ramata foglia secca, li abbia potuti stravolgere, riformulandoli piano piano (il riformare è artificio finalizzato al tirare avanti, non certo per cambiare realmente verso. La storia italiana ormai – ne sono desolato – ce lo insegna), o che siano persino ricordi di altri, di cui io – ripeto il magari – mi sono impropriamente impossessato senza neanche volerlo? Voglio dire, ho l’impressione – ne ho fondato sospetto – che qualcuno di questi cosiddetti ricordi sia troppo letterario. Il re-cordare, il rimettere nel cuore ciò che è trascorso, mi avvedo essere null’altro che l’ennesima fuga. Dai ricordi ai precordi, per l’appunto (Mi piace!, suona bene). Lo stesso riferimento (etimologico) al cuore, è sintomo di una forzatura sentimentale imposta sulla realtà che percepisco e rifiuto in un dato momento della mia vita. E la concreta idealità utile – il disegno in prospettiva – che fine ha fatto? Dovrebbero forse riflettere (silenziosamente però) su dubbi simili, coloro che spesso vanno cianciando di ricordare i bei vecchi tempi.

Gaetano Celestre