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Da qualche tempo i miei amici mi stanno chiedendo – come intimazione amichevole – di non scrivere più di politica. Credo, essendo loro miei amici, che il consiglio sia fondato sulla necessità di evitare inutili sprechi di forze, e conseguenti sforzi in lettura e in scrittura. Codesti miei amici, concedono che io scriva sui temi d’attualità, ma indirizzando le eventuali riflessioni su di un piano letterario. Ciò, in fondo, risulterebbe risoluzione incline al mio grande progetto in fieri, promosso più volte su queste pagine, la fuga presso il Mondo delle Idee. A ragion veduta, dunque, indugerò nelle prossime righe intorno a un tema di antichissima memoria, ma sempre attuale, quello dei simulacri, dei riti che li riguardano e delle possibili interpretazioni su tali vicende liturgiche, fornite dagli epopti guardiani agli iniziandi ai misteri. Senza tralasciare di acclarare sin da ora che talvolta, molto più spesso in verità, il percorso delle informazioni sacre procede dalla base per giungere alla statuizione formale da parte dei custodi.

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Ho letto recentemente di come la banda musicale (in verità alcuni componenti solamente) abbia celebrato Montalbano (nelle vesti di Luca Zingaretti), dinanzi alla sua stessa Questura, intonando le celebri e sublimi note dell’Inno di Busacca, e di come il predetto Montalbano (sempre nelle vesti di Luca Zingaretti) abbia accolto acconciamente le liete sonorità improvvisando danze da avanspettacolo primo-novecentesco. Si intende precisare che il noto commissario di polizia, non essendo originario del luogo, non aveva alcuna nozione dell’uso che di tale Inno si era soliti fare in Scicli, quando ancora non si chiamava Vigata. Alcuni esempi: ispirazione per una canzone di Capossela, suoneria per cellulare, matrimoni vari, e infine accompagnamento di un antico simulacro riguardante i riti di Santa Romana Chiesa (o perlomeno per come essi furono interpretati dalla pietà popolare nel corso del vetusto novecento del millennio scorso). L’evento pone in rilievo una interessante transizione in atto, forse già da lungo tempo.
Mettiamo ordine, se possibile, e sin dove lo si può immaginare:
Il simulacro in questione, ovviamente, è lo “strumento di simulazione” del Cristo Risorto di famosissima deambulazione pasquale; il percorso viario rituale (la “procedura prescritta”) della statua, preannunziato e imposto immancabilmente dalla banda che ne detta il ritmo – a pena dell’indugio indispettito da parte dei portatori – completa la liturgia non ecclesiastica riguardante la Festa di Resurrezione. È importante sottolineare il senso del termine “liturgia”, ancora una volta sin dall’etimo, al fine di scongiurare possibili confusioni, essendo questa, all’origine, mera funzione di servizio pubblico. Ora è tutto conseguentemente più chiaro, appare quasi inutile continuare, ma per non togliermi il piacere di alcune deduzioni, proseguo. Porfirio, che di simulacri si intendeva parecchio, così scriveva: ” … Farò conoscere i pensieri di una sapienza teologica con i quali uomini, mediante immagini congeneri ai sensi, raffigurando realtà invisibili in forme visibili, rivelarono il dio e le potenze del dio a coloro che hanno appreso a ricavare dai simulacri, come dai libri, ciò che vi è scritto riguardo agli dei.”, e io aggiungerei, in coda tra i cenni di “ciò che vi è scritto”, anche qualcosa riguardo chi tali divinità genera in continuazione, sovente in forma di idoli.

Intendo dire che, se l’Inno di Busacca è così spesso traslato in situazioni diverse ma analoghe a quelle della Resurrezione Cristiana (evidentemente, come prassi popolare), è probabile che la liturgia stia diventando via via più “liquida” ; e che, se i riti sono più o meno sempre simili nel corso della storia umana, la stessa cosa non si potrà certo dire dei simulacri. Essi mutano, in base alle tendenze sociali, alle interpretazioni e alle esigenze della Funzione Pubblica. Il Cristo Risorto è una gran cosa, ma Montalbano non scherza mica, ecco, più o meno qualcosa del genere. Mino Gabriele, a commento di Porfirio, scrive: “Il simbolo sta al posto di altro, di ciò che è simboleggiato, e lo sostituisce senza mai coincidervi né esserlo, in quanto l’uno non è ovviamente l’altro.” Queste parole suggeriscono che il simboleggiare sia, tra le altre cose, un percorso di approssimazione dell’interprete, di approssimazione all’ideale. Morta l’icona se ne fa un’altra, si potrebbe dire. Ma i processi sono lunghi e non è ancora tempo di esclusioni, piuttosto sarei più propendo nel credere in possibili coesistenze di più simulacri, mezzi di simulazione di una sola immagine proteiforme, rappresentazione di interessi particolari piccolissimi, individuali, e solo in parte sintetizzabili. L’immagine è unica, ma le pulsioni molto diverse. Chissà che tra cent’anni il popolo di Vigata non finirà per portare in giro, lungo le vie di Scicli, proprio quella statua di Montalbano (icona del tutto simile alla finzione zingarettiana) che già oggi si reclama forse meno inconsciamente di quanto si immagini.

Non penso che l’esito eventuale sia per forza riprovevole, né forse che sia da accettare del tutto supinamente, ritengo invece che non vi siano grandi ragioni per ostacolare i processi naturali e democratici. A proposito di riti e liturgia si è potuta notare, in occasione dell’ultimo 25 Aprile di Liberazione, l’assenza di “intrattenimento musicale” bandistico, laddove invece – come detto – lo si è rinvenuto in parte per le celebrazioni montalbanesche. Che ciò piaccia o meno, che le Istituzioni accettino o no le evoluzioni sociali, non si potrà in ogni caso ignorare il mutamento delle necessità insite alla raffigurazione e rappresentazione delle Funzioni Pubbliche. Il popolo ha sempre ragione, custodi e sacerdoti se ne rendano conto e aggiornino l’estetica che li riguarda, se non vorranno essere presto dimenticati.

Gaetano Celestre