una solitudine troppo rumorosaIntroduzione

Due settimane fa mi sono recato alla biblioteca comunale e, fattomi consigliare dalla bibliotecaria, mi son trovato fra le mani questo libro dal titolo contraddittorio Una solitudine troppo rumorosa dell’autore (a me completamente sconosciuto) ceco Bohumil Hrabal. Il titolo è la prima cosa che colpisce: e ho subito pensato  a Kundera (anch’egli ceco) con la sua opera L’insostenibile leggerezza dell’essere. Come ha notato Sergio Corduas, il traduttore di questo libro[1], entrambe le opere sono quasi degli ossimori, e lo cito: “La leggerezza non dovrebbe essere «insostenibile», e la solitudine non dovrebbe essere affollata e rumorosa… In ogni caso è abbastanza certo che biograficamente, stilisticamente e letterariamente, Kundera e Hrabal sono in relazione di antitesi più che di analogie, anzi l’opera dei due sembra quasi un piano preparato a tavolino per porci domande alle quali fornire le dovute risposte.” Ma prima di addentrarci nell’opera, mi sembra giusto, visto che l’autore è poco noto qui da noi, pennellare brevemente la sua vita.

L’autore

Bohumil Hrabal è nato a Brno, in Moravia, nel 1914, e ha svolto innumerevoli e svariati lavori: magazziniere, preparatore di malto in una fabbrica di birra, minutante notarile, ferroviere, assicuratore presso la compagnia “Sostegno della vecchiaia”, commesso viaggiatore, operaio nelle acciaierie, imballatore di carta da macero, macchinista e comparsa teatrale. Come scrittore inizia con la poesia, fortemente influenzato dal surrealismo, passa ai racconti ( Inserzioni per una casa in cui non voglio più abitare, Einaudi 1968; Vuol vedere Praga d’oro?, Longanesi 1973 ), e pubblica il suo primo romanzo breve nel 1965: Treni strettamente sorvegliati ( Edizioni e/o 1982 ), reso noto in tutto il mondo dall’Oscar assegnato al film omonimo. Dopo la crisi politica del 1968, che gli costò sette anni di silenzio forzato, due libri mandati al macero e una pubblicazione incompleta e solo episodica dei suoi testi, comparvero in H. forme narrative più ampie e vicine al romanzo. Gli anni Ottanta rappresentarono per lo scrittore il momento della pubblicazione in patria, ma più spesso all’estero, di testi del decennio precedente o di manoscritti degli anni giovanili, mentre la tematica della sua produzione divenne sempre più incline al ricordo in brevi testi memorialistici, soprattutto nell’ampia trilogia di Nymburk, di cui è stato tradotto solo il primo volume (Le nozze in casa, 1992). A partire dal 1989 la nota dominante della sua produzione divenne la quotidianità, il minimalismo del vissuto, lo scarno appunto diaristico (Bambino di Praga, 1990; Paure totali, 1995). Una sua lunga intervista vide la luce con il titolo Dribbling stretti ovvero Nodi al fazzoletto. Romanzo-intervista, 1995). Ha poi scritto Ho servito il re d’Inghilterra, Edizioni e/o, Roma, 1986; Una solitudine troppo rumorosa , Einaudi Torino 1987; La tonsura , Edizioni e/o, Roma 1987; Un tenero barbaro, Edizioni e/o, Roma 1994. Erede spirituale di altri due grandi praghesi, Kafka e Hascek, Hrabal è uno scrittore dallo stile originale, capace di fondere insieme come un Chaplin letterario un lirismo immaginifico e struggente e un umorismo irresistibile.

L’opera

[…]”Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiarsi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari. ” Questo è l’incipit dee Una solitudine troppo rumorosa, dove troviamo Hanta, praghese, da più di trent’anni pressa carta vecchia, con un metodo non privo di fantasia, beve birra e, ogni tanto, salva qualche bel libro dal macero, lo porta a casa; ormai i volumi occupano ogni spazio, ogni anfratto vitale, gli incombono sulla testa persino nel gabinetto. E già il fatto stesso di un distruttore di libri che salva ogni tanto uno di essi mi ha subito fatto pensare a un altro “ladro di libri”, ovvero a Guy Montag del celebre romanzo di Ray Bradbury Fahrenheit 451 dove, in quest’ultimo, i libri venivano bruciati perché ritenuti contrari alla dittatura vigente. E automaticamente ci nasce la domanda: perché Hanta salva i libri che dovrebbe distruggere? Anzi, si scoprirà più avanti nella lettura che non li porta solo a casa sua, ma li regala a un sacerdote e a un suo amico filosofo. Così alienato e derubato ritorno anche dal lavoro, silenzioso e in profonda meditazione cammino per le vie, oltrepasso i tram e le auto e i passanti nella nube dei libri che ho trovato quel giorno e che porto a casa nella borsa, passo sognante col verde senza neppure accorgermene, non urto contro i lampioni né contro i passanti, soltanto cammino e puzzo di birra e di sporcizia, ma sorrido, perché in borsa porto libri dai quali mi aspetto che a sera da loro apprenderò su me stesso qualche cosa che ancora non so. Hanta non pensa semplicemente a salvare dei libri, ma ne coglie e ne divora di essi i frammenti, delle frasi, e quando li legge “gli scaldano l’anima e gli illuminano l’intelletto”. Quest’opera, quindi, non è un romanzo e neanche una poesia, ma H. ci mostra come lui sia uno scrittore che “vede come” qualche accadimento fisico o psichico si produce. E’, come dice Corduas, uno “scrittore vedente”. Il protagonista si astrae dalla realtà, dialoga con i grandi della letteratura, soprattutto coi filosofi. Il lavoro gli è lieve, con le sue pause e le sue gioie, il contatto sacrale con la materia, la carta, i libri, la parola stampata. Ha tempo per riflettere, è diventato colto suo malgrado, assapora le piccole e grandi gioie della cultura, mentre il suo capofabbrica incombe minaccioso, opprimente, scontento, latore dei freddi principi di autorità e di prestazione, incarnazione di una realtà che sembra avere in uggia l’intelletto, la cultura, cose superate, non necessarie alla produzione. Ormai, un mondo vecchio è finito e ne avanza uno nuovo, igienista e frettoloso, impersonale e indifferente, monocorde e forte. Il mondo nuovo percepisce i libri come semplice carta straccia. Il lavoro, amorevole e artigianale del protagonista è destinato a trasformarsi in freddo, inesorabile, efficiente, insensibile e disumano lavoro industriale. Hanta, incapace di adattarsi ed escluso, ne farà le spese col tragico epilogo: si suiciderà gettandosi nella sua stessa pressa. Un suicidio pensoso e filosofico. Hrabal in un certo senso scrive un’opera filosofica, ma anche un’opera poetica. Tanto è vero che la prima versione di questo libro fu un poema in versi. Ne fece una seconda ma in prosa di lingua parlata ed infine una terza che è diventato un testo narrativo-poetico in lingua scritta e colta, togliendo quella parlata.  E, il colpo di scena finale: l’autore stesso ha vissuto le stesse esperienze di Hanta, visto che ha realmente lavorato, fra il 1954 e il 1958, nel deposito di carta vecchia di via Spàlena a Praga. Vorrei concludere questa mia impietosa analisi letteraria con una frase di Hrabal stesso, nella speranza che vi abbia incuriosito un po’ nel leggere questo straordinario autore ceco: “La mia solitudine è solo e soltanto la deduzione, la riconduzione a denominatore comune di tutto ciò che sono stato fino all’epoca in cui l’ho scritta. È la logica deduzione di tutto ciò che dentro di me era cresciuto, non ho tentato di scrivere null’altro se non che da noi un’epoca finiva e un’altra cominciava… Si era spezzata un’asse di un’epoca che era durata secoli, e il mio eroe si è trovato nel luogo della rottura ed è stato investito dalle schegge.”

Francesco Camagna