Gentilissimi lettori, essendo ormai giunti inesorabilmente alla chiusura della campagna elettorale, un mio amico mi ha esortato a non più abusare della pazienza senatoria (Quousque tandem abutere patientia nostra?),  soprassedendo a qualunque balzana idea in merito allo scrivere di “cose” riguardanti l’ambito politico. In effetti, mi sono accorto che i miei articoli…perdonami o divinità suprema del giornalismo, io non posso ambire allo scrivere “articoli”… diciamo più genericamente i miei “scritti”, spesso di recente vanno a parare nei dintorni della discussione politica. Sarà colpa del momento delicato che sta attraversano il Paese, sarà quel che sarà, ma in ogni caso sembra che mi sia sfuggito di mente quanto essenzialmente in questa rubrica dovrei scrivere di cose concernenti la sciclitudine…e Scicli, la qual anch’essa non attraversa un miglior periodo, politicamente parlando.  Ebbene, pur non promettendo affatto che non riparlerò di politica in futuro, per questa settimana ho deciso di seguire il consiglio dell’amico. Quest’ultimo stesso, mi ha invitato a scrivere un articolo – ancora con questo termine inappropriato per la mia condizione di neanche pubblicista, uff – uno scritto, scrivere uno scritto su un documento che egli medesimo mi ha consegnato, avendolo rinvenuto in un vecchio baule. Si tratta di un memoriale del 1692, riguardante un accaduto in periodo di Quaresima. A dire il vero non so che altro dirvi in merito, dunque mi risparmio qualche paginetta di scrittura “pensata” in word e ve lo presento qui di seguito così come l’ho ricopiato.
Gaetano Celestre

 

 

Littra a nome del signor barone don Natale Lombardo di Scicla

Scribenda sutta dittatura dallo servo mastro scriptore Giosuè in data di Martio Venneria Trediege dell’annus MDCXCII

Alla attintione dello illustrissima eccelentia signor Conte di Modica Giovanni Tommaso Enriquez de Cabrera

 

Eccellentissimo Conte Giovanni Tommaso Enriquez de Cabrera, con gravidanza di statu d’animu vi scrivu la littra ch’adunque stati leggenda, al fin di informare voscenza delle terribili circumstantie ch’havendome capitato, mi costringneno a scriverve.
Per cui volendo esprimermi il meo concepto nello magior claro dei modi et rendervelo fagilmente intellectibile, et ciò lo dico non per sminuire la vostra capabilità di comprinsione, mi avvio a raccontarve i fatti sin dall’initio.

Divete cognoscere, signor mio Conte Giovanni Tommaso Enriquez de Cabrera, ch’in Scicla lo meo è nome renomato in quanto a pietade et interesse esprimuto nelle cose pie e religiuose. D’ogne dir si dice in merito alla mia divotione e fidelitate, per cui vi invito anco a sincerarvene con lo stesso meo curato di famiglia, il signor don Cosimo Fratantonio, di cui mi par voi abbiate già cognoscentia in gratia della sua rinomanza per cose inherenti la nostra bella fede cristiana e ortodoxiamente tridentina. Per cui trovandoci nello periodo tristo dell’espiazione e dille gradite sofferentiae, ch’i simo in Cuaresima giunti, et hessendo la semana addietro, appunto lo Venneria Septimo dello prisente hannus, primo Venneria di Martio, didicatus alla Corona di Spine dillo noster Signore Grandissimo, mi trovai ad uscir dalla mia nuova abitazione con tutta la mea famiglia per poter essere presente agli offici religiosi che tenevansi nella non lontana ecclesia de Sancta Agrippina martire. Io vi prejo, clarissimo don Giovanni Tommaso Enriquez de Cabrera , eccellentissimo Conte di Modica, di tenner ben a mente lo fatto ch’io usciva dalla mia nova abitazione, con tutta la familia al seguito e li servi pure, lasciandola in custodia alla sola donna Fatima, mogliera dello scrivente Giosuè, ch’ira ormai antiqua assai nelle ossa per seguire la procissione.

Giunto ch’i fui dianzi il sagrato, evvi il tempo di salutar le cognoscenze e all’istante pur prese avvio la processione. Donna Ianella Battalia intonaba dulcissime l’inno devotissimo di San Grigorio, Ave Capu Cristi gratu dilli spini coronatum, nos conserba de peccatum penam et reatum. E qui debbo dirvi che propio quanto io m’i stava immergendo di più nella atmosfera di ascetica attesa, convenne nei miei paraggi mio cujino don Ignazio Castelletti, il quale tennemi in discussione per un longo pezzo a motivo di laudazione della nova mea abitazioni. Anco s’io sentia più sfottenza nello tono, che vero encomio.

Issa, meo eccellentissimo Conte Giovanni Tommaso Enriquez de Cabrera, trovasi in zona ditta della Senia et i la volli lì situare ove scorre una ramificazione dello torrente. Un angolo di paradisio ch’i pagai magnanime ad una vedovella in cerca di sostentamento. Tra frutteti dei giardini delli frati franciscani et lo convento istesso, m’adoprai a far costruir lo palagio con le petre diroccande e asportate dello vicino fortino antiquo d’i normanni conquistadori risalende. E però devo dirvi, e state bene attento a seguirme signor Conte Giovanni Tommaso Enriquez de Cabrera, non tutti fuoro cuntenti della mia aquisizione. Per cui le malelingue dicettero ch’i strappai a pochi denari frodando sulla vedova, quando mai ciò è stato vero. Si dicette pure che la nuova abitazione deturpasse l’ambiente per la sua visione che dimostraba uno palagio troppo alto e di brutta raffigurazione in un contesto bucolico qual isso era. La lamentazione era nei confronti delle mie abilitate, in quanto che fui io istesso a progettarne lo progetto per la rializzazione del palagio mio. In sostantia, si disse pure che havea anche fatto deviare il corso del ruscelletto, ditto fiumillo, mandando in aqua le coltivazioni di qualche non troppo perito colono. Alicuni dicettero pur che non molto ci volea a metter là giù, così com’essa era stata messa su’. Ma com’i dissi si trattò di malelingue e su queste dicerie dilungommi pur troppo con lo mio cujino. Fatto è che non habbi il tempo di chieder lo meo miraculo alla Santa Spina, così come facettero anco gli altri nilla processione. Mi si dicette chi l’hannus passatu ch’anco un pignataro habbia havuto in gratia ciò ch’ei chiedeva, consistendo in una guarigione di un figliolo suo. E ancor se ne parla a tutt’hodie, in tutta Sicla. In somma, ogniuno chiedea la sua e io mi intratteneva invece con lo meo cujin sgraziato. Poi si giunse in ecclesia per le consuete quaranta ore previste di preghiera. Solitamente, debbo dirve, ch’i lasciai a prigar i paggi nelli anni passati. Ma hessendo che l’anno scorso il pentularo havea conseguito il miracolo che vi dissi, ed hessendo ch’i ancora non havea ancora formulato la mea richiesta di miracolo al gran Cristo e la sua Spina, dicedetti di restar i stesso a pregar, con la mia mogliera, li figli e tutto il sequito. Ditemi voi, Conte Giovanni Tommaso Enriquez de Cabrera, si codesta non è vera devozione di un cristiano fidele.

Sarà stato per la gran copia di richieste possibili c’averia potuto fare, sarà stato per colpa della disattinzione provocatami dal malvenuto cujino, mi dispiace dirvi ch’i non riuscetti a chieder nulla per miracolo all’istante, quando sul finir del giorno un gran romore fu seguito da un tremore del turreno. Ci è da dir ch’ormai abituati ci siamo a codesti movimenti inconsulti, ormai consueti da cualiche tempore. Lo scosson questa volta non fu fortissimo, al cui non ci fu grossa prioccupatione. Tutta via, preferimmo per le lamentazioni della mogliera mia non rischiare et condussi tutta la famiglia fuor dalla zona abitevole, verso lo mare donde pericolo non potea venir per questi scossoni, essendo il cielo aperto e nenti havendo sopra il capo.

Non avendo la tierra tremato oltre nelle jornate appriesso, et hessendo che si giugnea allo secondo Venerdì collo Triunfo dilla Sancta Crugi, decidea la mea familia di tornarve in Scicla finalimente.

O meo Conte, fu qui al meo ritorno alla gran sopresa, terribile, di constatar che la mia abitazione era quasi tutta dirumputa in terra in gran sfacelo.

Li vicini mi dicetter la cosa dovuta allo tramuoto dello venerria prima. Qual sorpresa per me fu questa, voi non potete immaginarla Conte Giovanni Tommaso Enriquez de Cabrera, hessendo ch’i poi scuopritti non esser cadute altri caseggiati per tutto lo contado, tranne la mea bella e sfurtunata casa. Tanto c’alcun gridatte al miraculo.

Io vi juro ch’i non fui capito nella richiesta. Et hanzi, io vi juro che richiesta , come dissi, non ne feci proprio. Et per quantum non mai vorria passar per ingrato, dianzi l’autonoma elargizione del nostro Cristo e tutta la Santissima Compagnia, in dunque vi assicuro ch’io non averebbi mai riquiesto codesto modello di miraculo. Et è per codesto motivato ch’i vi chiede d’interceder presso li prilati di Sciclia al fin di far ripeter la festività della Spina Santa, così ch’io possa chieder lo miraculo vero e propro et desiderato entro codesto annus istisso, come io credo mi spetti da buon fidele dilla ecclesia de Roma, tale et quale allo pignataro. Cuesto anco in ration del fatto che lo figlio del pentularo, so per vero non esser manco figlio suo. Et non mi par justo ch’i dovria ora, pur bastunato et senza palagio, aspittar altro uno annus ancora per lo meo miraculo.

 

Sempre vostro fedele servo

Don Natale Lombardo per mano dello vedovo servo mastro Giosuè.